· Città del Vaticano ·

Contro la tentazione della superficialità

L’anestesia della fretta

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10 giugno 2020

Cinque anni fa moriva padre Michael Paul Gallagher, professore di teologia fondamentale alla Gregoriana


Quando nell’aprile del 2014 Papa Francesco ha fatto visita all’Università Gregoriana, nel suo breve discorso ha affermato che «il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo». L’immagine di un orizzonte teologico che non si appoggia ideologicamente sulla Rivelazione di Dio per presumere di avere una risposta chiara su tutto, e che non considera come definitiva una qualsiasi acquisizione su Dio semplicemente “chiudendo il discorso”, è ciò che ha caratterizzato il percorso umano, spirituale e teologico di quell’anima elegante e mistica che fu Michael Paul Gallagher.

Siamo qui davanti a un pensatore nobile, dallo sguardo gentile; un teologo, ma prima ancora un grande conoscitore ed esperto di letteratura e poesia che aveva insegnato letteratura alla National University dell’Irlanda, prima di approdare in un’accademia teologica. Forse proprio la fusione di questi due mondi, che avevano trovato una sintesi nella sua squisita umanità, fece di lui prima ancora che un professore anzitutto un maestro spirituale, capace di aprire sconfinati mondi inesplorati sull’esperienza umana e su quella religiosa.

Dalla ricchezza della letteratura, il gesuita irlandese aveva imparato che le grandi certezze della fede e delle sue definizioni erano ormai entrate in crisi non per una difficoltà di tipo intellettuale, quanto a causa di una nuova cultura che adesso si poggiava su una serie di presupposti, di simboli e di linguaggi diversi. A essere in crisi, cioè, non sono le idee su Dio ma il fatto che i linguaggi usati per narrarlo non risvegliano più le speranze profonde che abitano l’uomo e le sue domande fondamentali. Da questa scoperta, iniziò la sua avventura teologica: dare spazio all’immaginazione religiosa per affrontare in modo nuovo i problemi della fede.

L’approccio teologico ai tratti della cultura secolare e postmoderna, tra cui l’indifferenza religiosa, riceve allora un’interpretazione nuova: «Per molti anni — scriveva — ho avuto la sensazione che il principale ostacolo al Credo del cristianesimo fosse il nostro stile di vita e non le nostre idee. Il modo in cui viviamo può mantenerci alla deriva, alla superficie di noi stessi e incapaci di raggiungere livelli più profondi di ricerca... Quando l’immagine che abbiamo di noi stessi rimane povera, allora diventiamo incapaci di immaginare Dio» (La poesia umana della fede, 9).

Al di là di una lettura meramente sociologica, che corre sempre il rischio di fermarsi a ciò che appare, la teologia ha bisogno di uno sguardo più lungo, di un orizzonte più vasto capace di cogliere ciò che si cela e si nasconde al di là delle formulazioni esplicite e di abitare quelli che si possono definire “luoghi antecedenti” alla possibilità del credere o — per dirla con Charles Taylor — le condizioni di possibilità della fede. La lezione teologica di Gallagher si muove su questo crinale: esiste un’esplicita cultura secolare che, nel mondo occidentale, ha scalzato Dio dal centro della vita delle persone e ha reso irrilevanti, irreali e incomprensibili i linguaggi della fede e della Chiesa; ma per il discorso teologico, è molto più importante ciò che scorre sotto questo palcoscenico visibile, cioè quella secolarizzazione che ha toccato l’interiorità dell’uomo e i suoi simboli, quella coscienza anestetizzata dal consumismo, dalla fretta e dalla superficialità odierne, che in qualche modo hanno imprigionato e rimpicciolito l’io e le immagini che abbiamo di noi stessi, della realtà e di Dio stesso.

Insomma, prima di intervenire dall’alto con definizioni dogmatiche o catechetiche, con una ritualità oggi incomprensibile per i più, con un ottimistico investimento capitale sull’aspetto sacramentale, occorre situarsi al livello delle disposizioni interiori delle persone, dei loro desideri profondi, della loro sete e delle loro domande talvolta rimaste inespresse; a essere cambiata non è la fede, ma il contesto soprattutto personale e interiore in cui essa può nascere e prendere corpo: «Le persone prima devono riscoprire la loro anima, riappropriarsi di quei desideri che il modo di vivere prevalente tende a spegnere. Solo allora potranno risvegliarsi alla sorpresa del Vangelo» (Mappe della fede, 11-12).

Con la delicatezza del tratto umano, Gallagher si fece promotore di una teologia immaginativa, che dichiarava il bisogno di sganciarsi da un freddo intellettualismo e di presentare la fede come un viaggio nascosto nell’avventura del quotidiano e dell’esperienza umana, vero teatro dell’azione dello Spirito. Era convinto che bisognasse iniziare da più lontano, mettere le persone anzitutto a contatto con se stesse, promuovere una teologia capace di abitare la poesia nascosta e interiore che ognuno possiede, talvolta senza accorgersene. Infatti «le vere battaglie della vita avvengono all’interno dell’immaginazione umana... come ci vediamo? Che cosa speriamo? Qual è il senso delle cose?» (La poesia umana della fede, 17).

Così, la teologia si pone a servizio di una esperienza religiosa non riduttiva, non meschina, non falsamente consolatoria o ingenuamente fondata su certezze astratte; al contrario, essa impara a leggere, interpretare e accompagnare quelle trasformazioni interiori che avvengono nelle valli spesso monotone della quotidianità, per aiutare le persone ad avere occhi aperti per il mistero di Dio che silenziosamente si rende presente. Una teologia che ci aiuta a visitare anche le stanze interiori rimaste inesplorate, e a risvegliare l’immaginazione alla freschezza del Vangelo, dal momento che «Dio non parla con una prosa noiosa, con messaggi moralistici, rituali che si ripetono meccanicamente, ma con un amore immaginativo che spicca il volo, mediante eventi che sorprendendoti ti liberano» (La poesia umana della fede, 19).

Michael Paul Gallagher ha liberato dalle catene il pensare teologico e la spiritualità di tanti che, come me, hanno avuto la grazia di incrociarlo. Gli sono grato per avermi fatto crescere nella poesia umana della fede prima che in teologia, mentre resta scolpito dentro di me, in modo indelebile, lo sguardo commosso con cui mi guardò nel giorno del mio dottorato.

Poche settimane prima della sua morte, mi disse al telefono: «C’è dentro di me uno stupore inatteso... sono pronto per andare». Lo stupore della fede, cui tante volte ci aveva invitati durante le lezioni, lo ha accompagnato anche nell’ultimo viaggio.

di Francesco Cosentino