· Città del Vaticano ·

La questione del rapporto tra la Chiesa e il popolo di Israele alle origini della «Nostra aetate»

«Io sono Giuseppe vostro fratello»

Marc Chagall, «Ebreo in preghiera»
09 giugno 2020

La dichiarazione conciliare Nostra aetate non nacque dal proposito di trattare storicamente il rapporto tra la Chiesa e le altre religioni, né di affrontare, dal punto di vista teologico, la questione della unicità ed universalità della salvezza in Cristo in relazione ad altre esperienze religiose. Sebbene l’intenso dibattito successivo su questa problematica teologica sia stata la conseguenza diretta della dichiarazione, essa non ebbe l’intenzione di approfondirne i fondamenti, pur gettandone le basi, peraltro, rintracciabili anche in altri documenti conciliari. La storia della sua redazione lo dimostra con chiarezza: all’origine vi fu la questione del rapporto tra la Chiesa e il popolo d’Israele. In effetti, potremmo dire che si è trattato di eterogenesi dei fini, in quanto da un problema particolare si è dischiuso un orizzonte universale; dal primitivo obiettivo – la questione ebraica – si è giunti a trattare, seppur brevemente, la relazione con le altre religioni. Anche in questo processo è possibile riconoscere l’azione dello Spirito all’opera nel concilio.

La ragione storica del documento, infatti, risiede principalmente nella chiara presa di coscienza ecclesiale della necessità di chiudere una lunga storia di conflitti e di incomprensioni, che, sotto il nome il nome di antisemitismo — che talvolta si preferisce distinguere dall’antigiudaismo —, ha visto complicarsi i rapporti tra Chiesa cattolica e popolo ebraico. La reazione della coscienza cattolica contro l’antisemitismo rappresenta l’antefatto della dichiarazione conciliare, in quanto una serie di interventi prepararono il terreno alla decisione che, di fatto, venne presa personalmente da Papa Giovanni XXIII, il 18 settembre 1960, con il mandato esplicito al cardinale Agostino Bea, presidente del Secretariatus ad unitatem Christianorum promovendam, di preparare un testo sulle relazioni tra la Chiesa e il popolo ebraico.

Già il 25 marzo 1928, il Sant’Uffizio, mentre ordinava lo scioglimento dell’associazione sacerdotale Amici Israël, che operava profeticamente per una riconciliazione con gli ebrei, aveva ricevuto l’indicazione da Pio XI di inserire nel decreto la seguente dichiarazione: «La Sede Apostolica, poiché riprova tutti gli odi e tutte le animosità tra i popoli, condanna pure in modo assoluto l’odio contro il popolo prescelto da Dio, odio che oggigiorno si suole comunemente indicare col nome di antisemitismo». Dieci anni dopo, il 6 settembre 1938, Papa Pio XI tornava sul tema accennato un anno prima nell’enciclica Mit brennender Sorge, affermando senza esitazione: «Non è possibile ai cristiani prendere parte all’antisemitismo. […] l’antisemitismo non è ammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti».

Soprattutto in seguito alla tragedia della seconda guerra mondiale, sfociata nello sterminio nazista degli ebrei con la shoah, divenne più urgente una presa di posizione da parte della Chiesa cattolica, alla quale si rimproverava, ingiustamente, di essersi resa silenziosa complice della persecuzione antisemita, a motivo di un non esplicito intervento di condanna del nazismo da parte di Papa Pio XII. In varie parti del mondo, ebbe inizio una riflessione sulle responsabilità non solo nei confronti delle persecuzioni passate, ma soprattutto in prospettiva dell’avvenire, per non dimenticare e non ripetere. Anche all’interno del mondo protestante, specialmente ad opera del Consiglio ecumenico delle Chiese, i rapporti con gli ebrei vennero esaminati sia teologicamente che sul piano dell’antisemitismo (Evanston 1954, New Delhi 1961), senza tuttavia giungere ad una chiara risoluzione, a causa di varie opposizioni: un problema simile si prospetterà anche in occasione del concilio Vaticano II.

La decisa volontà di trattare la questione dei rapporti col popolo ebraico, da parte di Papa Giovanni XXIII maturò — oltre alla personale esperienza di nunzio in Bulgaria e in Turchia, durante la guerra — grazie anche all’udienza concessa ai delegati dell’United Jewish Appeal, il 17 ottobre 1960, in cui il Pontefice si presentò dicendo: «Io sono Giuseppe vostro fratello». Fu soprattutto decisivo l’incontro del 13 giugno 1960 con lo storico ebreo francese Jules Isaac (1877-1963), autore del libro Jésus et Israël (1948), in cui auspicava la necessità di una riforma (redressement) dell’insegnamento del disprezzo, basato sulla presunta responsabilità collettiva del popolo ebraico per la condanna di Gesù. Dopo venti minuti di colloquio, dopo aver presentato una nota e suggerita una sottocommissione che studiasse il problema, alla domanda se potesse nutrire qualche barlume di speranza, Isaac si sentì rispondere dal Papa: «Vous avez droit à plus que de l’espoir». Tre mesi dopo, Giovanni XXIII affidava al cardinale Bea il compito di preparare un testo al riguardo.

di Maurizio Gronchi