· Città del Vaticano ·

Riflessioni di un giorno di mezzo anno

Il tempo che stiamo vivendo tra rischi e speranze

FILE PHOTO: Member of the medical staff in protective suit treats a patient suffering from ...
30 giugno 2020

La prima metà di questo anno 2020 sta passando ed è forse un momento buono per fare il punto, raccogliere le idee. Sarà che ogni anno, allo scadere del mese di giugno, la comunità de «L’Osservatore Romano» sente particolarmente questo passaggio, visto che il primo di luglio del 1861 è la data in cui i documenti e gli storici ricordano la nascita di questo quotidiano e quindi anche oggi, “vecchi” di 159 anni, sentiamo di fermare per un attimo la corsa del tempo per guardare in entrambe le direzioni, indietro e avanti, e provare a dire qualcosa, tracciare un bilancio, indicare una prospettiva. Non fosse altro per ringraziare.

Siamo arrivati a questa data e non è qualcosa di scontato, soprattutto in un anno come questo che è già passato alla storia come l’anno della pandemia da coronavirus. La riflessione quindi oggi sarà tutta incentrata non sulla lunga storia del quotidiano, per questo possiamo rinviare all’anno prossimo (anniversario più “rotondo”), ma sul periodo, più breve ma molto intenso, di questo primo semestre del presente anno. Un periodo purtroppo contrassegnato duramente dal segno della morte, anzi dei morti. Perché “la morte” rischia di diventare un “tema” di cui parlare, giacché “si muore”, ma i morti, con tanto di nome e di volto, sono un’altra cosa, sono persone, sono storie. Più di trentamila in Italia sono i morti dall’inizio della pandemia e grande è la paura di un ritorno, di un “rimbalzo” del contagio. Terribile, su tutti gli aspetti collegati con il covid-19, è stato detto e ripetuto spesso in queste settimane, è che queste persone sono morte quasi sempre da sole, abbandonate per motivi di “sicurezza”. La morte, che già è l’esperienza massima della solitudine, vissuta nel più totale isolamento, ermetico, asettico. Il corpo come grande assente. Questo forse il dolore maggiore di tutti, davanti al quale è difficile trovare le parole al punto da sembrare quasi insensato. Altri due aspetti di questa particolare pandemia, che purtroppo non è poi così “particolare” visto che la storia dell’umanità può essere letta come un susseguirsi di epidemie, pestilenze più o meno devastanti e come la reazione che l’uomo ha saputo organizzare nel corso degli ultimi millenni, facendo indubbiamente grandi progressi, meritano lo spazio di una pausa utile per riflettere.

Un male asintomatico

Il primo aspetto è quello relativo al fatto che il covid-19 manifesta spesso il carattere della asintomaticità. Si manifesta a-sintomatico, cioè si manifesta nel suo non manifestarsi. È un virus infido, subdolo che si insinua nell’organismo (in quello della singola persona e quindi dell’intera società) senza dare segni, senza che nessuno se ne accorga, per il malato che si sente bene, pensa di stare bene ma in realtà sta male. È un aspetto interessante se lo applichiamo alla dimensione morale e psicologica. Nella Bibbia leggiamo che il Maligno è uno spirito che agisce soprattutto ingannando, usando la menzogna come arma. Cioè fa sì che l’uomo non chiami più le cose con il loro nome, ma finisca per chiamare “bene” ciò che è male e viceversa. Come un lento piano inclinato che conduce ad un intorpidimento di quel “sensore” che è la coscienza per cui non percepiamo più il suo segnale e non reagiamo più di fronte ai suoi “sintomi”.

Il male quindi si presenta spesso asintomatico, ci convince che è necessario farlo, perché in realtà ci conduce al bene (il nostro). Gesù nel Vangelo si scontra spesso contro la mentalità di chi si crede a posto, di essere (nel) giusto, di chi è arrivato ad un livello così drammatico di “asintomaticità” che l’unica cura possibile è quella di una scossa benefica alle radici. E quindi per svegliare dal “torpore” usa parole anche molto dure e aspre come “ipocriti, sepolcri imbiancati, guide cieche...”.

Papa Francesco ha spesso predicato in tal senso distinguendo tra il peccatore e il corrotto: il primo ha ancora attivo il “senso” del peccato, sente il morso del male che compie, per lui il male è ancora sintomatico. Non così il corrotto. Quest’ultimo ha spento, tagliato i nervi sensibili, non sente più nulla ed è convinto di fare il bene, di coincidere quasi con il bene stesso. Viene in mente una battuta dello scrittore inglese C.S. Lewis: «Se è inevitabile avere un tiranno, “un barone ladrone” è assai meglio di un inquisitore. La crudeltà del barone può talvolta assopirsi, la sua cupidigia saziarsi; e poiché intuisce confusamente di far male, potrebbe anche pentirsi. Ma l’inquisitore, che scambia la propria crudeltà e sete di potenza e di terrore con la voce celeste, ci tormenterà all’infinito perché ci tormenta con l’approvazione della propria coscienza, e i suoi impulsi migliori gli appariranno come tentazioni».

Paradossalmente questo virus asintomatico ha sviluppato un effetto di segno opposto, ha rivelato cioè una situazione che si era già affermata e consolidata da anni, ci ha fatto cioè notare che, come ha detto il Papa, noi eravamo già ammalati ma, appunto, non ce ne accorgevamo. La sera del 27 marzo, da solo in piazza San Pietro, Francesco lo ha detto chiaramente: il nostro mondo era già ammalato. Le ingiustizie, le diseguaglianze, gli abusi e gli sprechi, il delirio di onnipotenza della scienza e della tecnica, erano tutti mali già presenti nella società contemporanea, una società in cui la grande solitudine delle persone, soprattutto di quelle socialmente più fragili, era la cifra dominante. Il covid-19 costringendoci all’isolamento, spietato e doloroso, ha solo rivelato e fatto emergere il vero virus che attanaglia, non dal 2020 ma da sempre, il cuore dell’uomo: l’egoismo di chi vive solo per “tenere la propria vita” anziché donarla per gli altri. Il male asintomatico di questo virus è stato il grande sintomo che ha fatto fermare per un po’ di tempo (e speriamo che questa pausa continui e sia feconda) la folle corsa del benessere al posto dell’essere, un benessere forzato, propri di chi si ripeteva “va tutto bene, io sto bene” senza rendersi conto di quello che diceva.

Un vaccino che non c’è

Un secondo aspetto di questa pandemia che merita di essere ripensato è il fatto che il vaccino di questo virus non c’è. Non nel senso che non si troverà, questo è l’augurio che tutti gli uomini rivolgono nelle loro preghiere a prescindere dal proprio cammino personale di fede. Non si sa se si troverà un vaccino, da qui le preghiere: forse sarà come quello per l’influenza che ogni anno si deve rifare ma che non debella mai del tutto e con certezza gli effetti del male o forse sarà come l’hiv che a distanza di anni ancora non ha un vaccino ma in qualche modo è stato contenuto e incanalato verso la “cronicizzazione” della malattia. Questi due esempi inducono ad una riflessione. Il vaccino che noi pensiamo, quel farmaco che arriva e distrugge radicalmente e per sempre il male, non esiste, non può esistere. Per i motivi che sono stati rilevati prima: il vero virus non è il covid-19 ma è l’egoismo, la bramosia disperata dell’avere che soppianta il senso di gratitudine dell’essere. Contro questo virus più profondo, non esiste un farmaco che come per magia, debelli il contagio una volta per sempre. Gesù ce lo ha detto chiaramente, ad esempio, nella parabola della zizzania. Siamo noi tutti come quei servi zelanti che si stupiscono fino all’indignazione della presenza della zizzania (del male) nel campo (nel mondo) e vorremmo andare lì con l’ascia e la vanga per estirparla tutta in una volta, con un taglio netto e definitivo. Non è questa la logica di Dio. La logica, realistica, di Chi ha creato e ama la realtà del mondo e degli uomini, è quella di avere e dare speranza. Dio non è un mago che risolve i problemi e il male nel mondo con un colpo di bacchetta magica. Bene e male sono mischiati nel “campo” della storia che è quindi un campo di battaglia, pieno di feriti (da qui il compito della Chiesa, essere l’ospedale sempre aperto per chi soffre) e la guerra è aperta fino all’ultimo giorno. Ogni tanto gli uomini promettono l’avvento del paradiso nella storia, ci indicano il male da estirpare e ci convincono che quel “taglio” sarà la fine della presenza del male nel mondo. Tutti i paradisi promessi su questa terra hanno poi rivelato volti infernali, non solo quelli politici figli delle grandi ideologie totalitarie ma anche quelli più piccoli, come i paradisi “artificiali” della droga per non parlare di quelli “fiscali”, regni dell’indifferenza e dell’ingiustizia. Tutti “luoghi” asintomatici: il drogato e il corrotto perseguono il loro bene e chiamano le cose con il nome sbagliato, avendo perso totalmente il contatto con i sintomi del male che li avvolge.

In fondo è come nei nostri computer. Ogni tanto vengono assaliti dai virus. A quel punto si chiama il tecnico che non distrugge il nostro computer né lo sostituisce ma ci impianta l’antivirus, “cronicizzando” la malattia o, meglio, il conflitto. Virus e antivirus dovranno combattere in modo diuturno fino alla fine dei giorni, anche per questo è importante ogni tanto “aggiornare” l’antivirus. E ancora più importante, alla fine di ogni operazione, “salvare” il file che abbiamo creato. Il linguaggio, squisitamente religioso, che circonda il nostro mondo informatico e digitale rivela un senso più profondo. La vita non è un gioco di magia, ma un gioco onesto, vero, senza trucco, che si deve condurre seriamente con tenacia ripartendo sempre da capo. In questo campo di battaglia che è la vita il cristiano non è solo. Ha un “antivirus” potente che è Gesù stesso ancora presente grazie all’opera incessante dello Spirito Santo e alla presenza della Chiesa e quindi dei sacramenti. Da questo punto di vista Gesù è insieme il tecnico che inserisce l’antivirus e l’antivirus stesso, che, dentro di noi, pensiamo ad esempio all’eucaristia, ci sostiene nell’avventura quotidiana della vita.

Sono semplici riflessioni al termine del primo semestre di quest’anno, rivisto con spirito di gratitudine e di speranza e con questo spirito offerte al lettore di questo giornale che oggi compie 159 anni di vita.

di Andrea Monda