· Città del Vaticano ·

LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Fra crisi dello Stato nazione, capitalismo, sicurezza, dittatura della tecnologia

Il disordine che viene

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22 giugno 2020

Raffaele Alberto Ventura, classe 1983, scrittore, vive a Parigi, dove collabora con il Groupe d’études géopolitiques e con la rivista «Esprit». Il suo primo libro, «Teoria della classe disagiata», pubblicato da minimum fax (2017) è uno delle opere d’esordio più apprezzate degli ultimi anni. Con la stessa casa editrice ha pubblicato anche «La guerra di tutti» (2019). L’articolo seguente, scritto per «L’Osservatore Romano», risponde ad alcune riflessioni sulla crisi odierna e sulle prospettive future, temi ai quali ha dedicato il suo nuovo libro «Radical Choc. Ascesa e caduta dei competenti», che uscirà a settembre per Einaudi.

Nel suo vivido ritratto del mondo di ieri, ovvero della Vienna prima della caduta dell’Impero austro-ungarico, Stefan Zweig parlava di un “mondo della sicurezza” oramai perduto: in effetti il primo segno del benessere sta nell’essere al sicuro dai pericoli, dalla miseria, dalla paura. Questo ci riporta alla radice hobbesiana dell’ordine politico moderno, costituito proprio sulla paura. A questa paura lo Stato oppone un sistema di protezione: innanzitutto dell’incolumità fisica, secondariamente della proprietà, poi della libertà di intraprendere e di prosperare. Oggi anche il nostro mondo si è ripopolato di rischi (ecologici, epidemici, finanziari, sociali, tecnologici) e l’ordine politico sembra vacillare, incapace di onorare l'antica promessa di sicurezza sulla quale si era fondato. Ma piuttosto che cercare di elencare le innumerevoli cause esogene vorremmo suggerire che abbiamo a che fare con l’esaurimento di un ciclo: un ciclo non dissimile da quello imperiale di Zweig, giunto al suo definitivo stiramento, che aveva origine proprio con Thomas Hobbes; un ciclo comunemente definito di modernizzazione. Questo esaurimento porta con sé una crisi economica e una crisi di legittimità, e da qui un ripiego identitario che esacerba le tensioni intercomunitarie. Come governare allora il disordine che viene?

Il ciclo della modernizzazione

La nascita dello Stato moderno tra il Cinquecento e il Seicento inaugurava una lunga fase nella quale l’espansione crescente dei poteri pubblici — incaricati appunto di produrre sicurezza — andava di pari passo con lo sviluppo economico, la prima propiziando il secondo e il secondo finanziando la prima. Questo circolo virtuoso richiedeva inoltre crescenti investimenti nella competenza, cioè nel capitale culturale e nella specializzazione professionale degli individui: in effetti la sicurezza moderna non consiste soltanto nell’essere al sicuro dai pericoli ma inoltre nell’essere sicuri, ovvero nell’essere in grado di capire il funzionamento della natura e di prevedere il corso degli eventi. Per questo il grande sociologo Max Weber, un secolo fa, individuava nella razionalizzazione la cifra essenziale dell’età moderna e annunciava l’inesorabile fusione tra capitalismo e burocrazia.

In questo modo l’Occidente ha goduto di vari secoli di espansione. Il ciclo della modernizzazione, tuttavia, è virtuoso solo fintanto che riesce ad auto-sostenersi: ovvero fintanto che gli investimenti in sicurezza possono essere ripagati con lo sviluppo che generano. Il problema quindi sorge dai rendimenti decrescenti della sicurezza ovvero dall’incapacità di ogni unità di spesa supplementare di generare un beneficio per la collettività all’altezza della spesa precedente. Se consideriamo l’ordine politico moderno come un rapporto di scambio ineguale tra un Centro dove si concentra il capitale-competenza e una Periferia che fornisce il lavoro materiale, allora possiamo figurarci la sua crisi come simile allo “stiramento imperiale” che affligge le grandi potenze quando non riescono più a garantire la totalità dei propri interessi. A questo punto iniziano ad apparire sempre più visibili gli effetti collaterali e sempre più problematico lo smaltimento degli scarti (ecologici ma anche umani) del processo di produzione della sicurezza.

In questa fase di rendimenti decrescenti, che la maggior parte degli indicatori quantitativi fa iniziare alla fine degli anni 1960, inevitabilmente inizia anche a erodersi il consenso delle istituzioni pubbliche e della classe competente. Si entra così in una crisi di legittimazione, come ravvisato già all’epoca da filosofi come Jurgen Habermas e Claus Offe e segnalato nel famigerato rapporto 1975 della Commissione Trilaterale, La crisi della democrazia. Quelle competenze che erano state tanto preziose nella fase di espansione, garantendo salute e benessere, tendono sempre di più a essere rimesse in discussione. Come aveva visto Nietzsche, alla stanchezza di una civiltà segue una profonda delusione e dalla delusione sorge il risentimento.

Classe disagiata e guerra di tutti

L’ordine moderno, virtuoso sotto certi aspetti, per altri appare strutturalmente disfunzionale. Innanzitutto esso si caratterizza per un’inevitabile corsa in avanti, a proporre di volta in volta le soluzioni necessarie per risolvere i problemi da esso stesso creati — insomma a produrre sempre ulteriore sicurezza a fronte dei nuovi rischi che la sua esistenza ingenera. Una corsa, tuttavia, che non può essere infinita perché finite sono le risorse da sfruttare e i territori verso i quali espandersi. Oltre una certa soglia la domanda di sicurezza non riesce più a essere soddisfatta per eccesso di rischi: abbiamo vissuto in meno di un decennio in mezzo a frequenti sollevamenti popolari, un’epidemia mondiale, un’ondata di attentati, un’escalation militare tra potenze atomiche e la minaccia di una catastrofe climatica.

Quest’ordine è inoltre disfunzionale perché nello sviluppare al massimo le forze produttive e nel garantire una soddisfazione sempre più ampia dei bisogni materiali, esso non riesce a soddisfare la domanda di bisogni simbolici che, anche in questo caso, è esso stesso a generare. Questi bisogni, tutt’altro che secondari, hanno in effetti una natura “posizionale”: le merci simboliche che li soddisfano — come ad esempio i titoli di studio, la reputazione o il riconoscimento — non possono essere fabbricate su scala industriale, anzi hanno un valore proprio per via della loro scarsità. L’accumulazione di beni posizionali ha la specifica funzione di permettere la selezione sociale sulla base del principio di competenza; ma tende a costituire un enorme spreco per la collettività, oltre a lasciare sul campo di battaglia sempre più numerosi individui sovra-istruiti che nessun mercato del lavoro sarà mai in grado di assorbire: è quella che ho chiamato “classe disagiata”, classe spesso rassegnata e talvolta comprensibilmente risentita, che si candida a guidare le rivolte di domani.

Infine quest’ordine è disfunzionale perché il processo di modernizzazione pretende la dissoluzione delle identità comunitarie in nome del trionfo dell’universale, ma entrando nella sua fase di stiramento il sistema fatica sempre di più ad assimilare gli individui. Alla ricerca di nuove fonti di sicurezza, di sostentamento ma anche di riconoscimento, molti tra i più fragili possono essere tentati dalla “dissimilazione” ovvero dal ripiego in un’identità etnica o religiosa spesso ricostituita artificialmente, sia essa l’Islam radicale o il sovranismo europeo. Questa tribalizzazione del corpo sociale ha creato le condizioni per una “guerra di tutti contro tutti” che oggi si manifesta in frequenti conflitti a bassa intensità, spesso catalizzati su simboli o questioni simboliche. Ma ogni sfogo catartico rischia presto o tardi di sfuggire al controllo. Se è giusto che le minoranze trovino un modo di regolare i loro conti con chi li ha per troppo tempo dominati, nostro compito è fare il necessario perché non s’inneschi una scalata agli estremi. A questo problema sto dedicando un rapporto che verrà pubblicato dal Groupe d’Etudes Géopolitiques di Parigi.

Governare il disordine

I dibattiti sul “politicamente corretto”, ad esempio, possono suscitare ironie solo finché non si comincia a capire quali sono le terribili conseguenze che le società multiculturali cercano di prevenire con certe cavillose precauzioni linguistiche. Ogni “passo indietro” rispetto a valori della civiltà democratica-liberale che si credevano acquisiti sono in realtà i sintomi della dissoluzione di certe sue precondizioni storiche. Questo vale per la libertà d’espressione a fronte di una ridefinizione del paesaggio culturale così come per la libertà di movimento a fronte del rischio epidemico. Rileggendo i libri di Storia mentre la Storia accenna a ripetersi, ci troviamo a valutare con maggiore indulgenza certe norme, interdetti e dispositivi di regolazione che avevamo liquidato senza coglierne la razionalità funzionale. Proprio come ci siamo rassegnati alle drastiche misure profilattiche necessarie per arrestare sul nascere la circolazione di un virus, presto ci convinceremo che la pace civile val bene qualche rinuncia. Ma la negoziazione sarà tutt’altro che indolore, come mostrano le legittime sollevazioni dei neri d’America.

Non c’è nulla di cui felicitarsi per questo passato che ritorna, poiché significa un’estensione ancora maggiore del dominio della sicurezza. Alla massa critica di risentimento che si è accumulata negli ultimi decenni non si riesce ad opporre altro che una gestione muscolare dell’ordine pubblico; alla caduta delle strutture comunitarie non si trova altro palliativo che la militarizzazione dello spazio urbano. La necessità di amministrare una crescente mole di rischi rende la società sempre più dipendente da una tecnostruttura altamente qualificata che riesce sempre meno a permettersi e sempre più difficile legittimare. La storia della Ragione non è in fondo altro che la storia della sua bancarotta. Proprio come si parla talvolta di “democratura” per indicare la crasi tra democrazia e dittatura, tra le trasformazioni che incombono c’è anche quella della democrazia liberale in tecnocratura. Pur di non ricadere nel caos, non ci resta altro che desiderare la distopia.

Nessun argine, tuttavia, basterà a risolvere la contraddizione fondamentale tra rischio e sicurezza da cui sorge la modernità, e che la costringe alla sua continua corsa in avanti, fino a non potersi più sostenere. In un civiltà che aveva affidato la legittimazione dei propri poteri alla sola dinamica dello sviluppo — entrata in crisi ormai da mezzo secolo dopo averci regalato una parentesi di prosperità che pareva eterna — economia e politica si trovano abbracciate nella caduta come lo erano nell’ascesa. È il suono sordo dell’impatto quello che già sentiamo su di noi, ma rallentato a tal punto che ci siano convinti che si tratti solo di un rumore di fondo. Il nostro tempo è passato e il mondo in cui siamo cresciuti già appartiene a ieri.

di Raffaele Alberto Ventura