· Città del Vaticano ·

Il restauro del Polittico dell’Agnello mistico di van Eyck

Se la natura diventa cultura

Adorazione dell’Agnello (particolare)
16 maggio 2020

Anticipiamo stralci dall’editoriale del numero di «Vita e Pensiero» in uscita giovedì 21 maggio, il secondo del 2020 (marzo-aprile). L’autore è l’arcivescovo di Malines-Bruxelles. Il testo, nella traduzione di Mario Porro, si rifà all’allocuzione tenuta l’11 ottobre 2019 nella cattedrale di San Bavone di Gand per l’apertura dell’anno dedicato a van Eyck, in occasione del restauro del Polittico dell’Agnello mistico.

Sono nato a Gand e ho servito come sacerdote per diciotto anni in quella diocesi. Ho abitato in città, all’ombra della sua cattedrale. Diventato vescovo ausiliario di Bruxelles, ben presto vennero scelti i colori dello stemma episcopale: il verde e il rosso, che sono i colori della città. Ma che cosa mettere ancora? Io non volevo e non potevo dimenticare Gand. Fu così che il mio pensiero andò spontaneamente all’Agnello mistico. Ma vi erano anche altre ragioni importanti, ragioni che hanno a che vedere con la mia fede e la mia missione di vescovo.

La prima è l’immagine stessa dell’agnello. La grande composizione è centrata su di lui. L’agnello è ferito e sanguina. Ma non come quello dipinto in maniera così struggente da Zurbarán, mentre giace al suolo, morto, con le zampe legate. Nulla di tutto questo qui. L’agnello sì è sacrificato, ma si regge in piedi. È quel che dice l’Apocalisse.

È un’immagine del Cristo: respinto e condannato, messo a morte e assassinato, ma risorto. È un agnello. Non un toro. Non un leone. Un agnello: è proprio l’ultimo animale con il quale si identificherebbe un sovrano o un vincitore. E, ribadisco, sacrificato. Non un vincitore, ma una vittima. È l’agnello a proposito del quale troviamo nel Deutero-Isaia queste parole che la Chiesa legge ancora il Venerdì santo: «Non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca (...). sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca» (53, 7.9).

Questo mi fa pensare a quel che dice Gesù nel vangelo di Matteo: «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; (...) appunto come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (20, 25-26.28).

Se, dopo aver cercato a tastoni, si è trovata la Verità e se tale Verità è diventata un’evidenza, allora si palesa il pericolo di prendersela con gli altri. È il pericolo che corrono sempre la Chiesa e le religioni. È per questo motivo che l’immagine dell’agnello mi è così cara.

Nel simbolismo biblico e cristiano, si tratta dell’agnello pasquale. So bene che il polittico ci pone di fronte anche agli splendori della corte di Borgogna e alla ricchezza delle nostre regioni in quei tempi: una bellezza stupefacente. Ma in mezzo a tutto sta l’agnello sacrificato e sanguinante. E ora che il restauro ha tolto gli strati di pittura sovrapposti, la cosa diventa ancor più potente. Non sono più tanto gli occhi di un agnello, ma è lo sguardo di colui che mi guarda con intensità e mi dice: «Eccomi, come un agnello, ecce homo». È per questo che ho scelto di porre l’immagine dell’agnello nella parte alta del mio stemma.

Ma vi è anche una ragione personale per la quale ho pensato alla parte inferiore della pala dei fratelli van Eyck. Quello che ci troviamo è la rappresentazione della visione finale dell’Apocalisse. Non un resoconto letterale, non un’illustrazione del testo biblico, ma proprio una gigantesca rievocazione della visione che conclude il testo. Di quel che ci attende tutti quando la sofferenza sarà stata espiata e tutto sarà compiuto. È l’ultima pagina delle Scritture.

Nella prima, quando Dio crea il mondo, si parla di un giardino. Un giardino magnifico, nel quale passeggiano Adamo ed Eva. Ma il giardino non si è conservato. Essi hanno ricevuto la missione di essere fertili e di moltiplicarsi. È solo allora che comincia la storia: quando la Terra comincia a essere abitata e la vita deve svolgersi nella condivisione con gli altri. Allora, l’immagine del giardino si trasforma in quella della città dove molti vivono insieme.

Così, la natura diventa cultura. Un’impresa appassionante, ma anche tanto pericolosa. Lo si vede fin da Caino e Abele. Vivere insieme è stata la sfida più grande nel corso della storia.

In genere, si è trattato di una storia di potere e di dominazione, e non più della passeggiata di una coppia spensierata nel giardino. È necessario lasciare il paradiso per dare inizio all’avventura e condividere la vita con gli altri, altri che sono diversi, che apprezzo e rispetto, con i quali sto costruendo un vivere-insieme più umano. È ancora la nostra grande sfida di oggi. Ed è la convinzione dell’Apocalisse: vi è in effetti un duro combattimento.

Ma anche, in questa sua ultima pagina, la situazione non è priva di prospettive. Non è per niente che si combatte, che si ama e si muore. «Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate» (21, 4).

Proprio allora, alla fine, nell’Apocalisse, non si parla più di un giardino, ma di una città. Una città immensa. Non vi è più soltanto una coppia umana, ma una moltitudine che nessuno può calcolare, a immagine di quella città dalle dimensioni impensabili. Larghezza, lunghezza e anche altezza: ogni volta dodicimila stadi. Una città dalle dimensioni cosmiche. Una città grande come il mondo, come la Terra stessa. Una città magnifica, edificata con i materiali più preziosi che la maggioranza dei mortali non ha neppure mai visto. Giovanni non cessa di rincarare la dose: cristallo e oro, perle e pietre preziose tutte identificate. Non ci sono parole per dire come è bello abitarvi e condividerne la vita.

È per questo che nella parte inferiore del mio stemma è raffigurata una città. Essa rimanda evidentemente a Bruxelles. Ma rimanda ancor più a quell’altra città che ci è promessa e di cui l’Apocalisse dice: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro» (21, 3).

Finora mi sono riferito alla vista della polittico quando è aperto. Ma anche quando i due pannelli laterali sono chiusi a coprire il pannello centrale, si è sconvolti dalla bellezza straordinaria di quel che si può vedere. Si scorgono, sotto, nelle nicchie, i due donatori (appartengono a quanto vi è di meglio e di più antico nell’arte del ritratto dei primitivi fiamminghi, e anche in questo caso il restauro ha fatto miracoli) e i due santi, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista. E sopra, il dipinto del messaggio dell’Angelo.

È soprattutto questo dipinto a suscitare il silenzio. Tutto l’ambiente è così raccolto, così sereno. Anche il magnifico interno della camera. Lo spazio è meno chiuso di quanto si pensi. È piuttosto uno spazio con una veduta in profondità che apre anche, sul fondo, la finestra sulla città. La tonalità stessa è raccolta. Il rosso e il verde li vediamo soltanto nei donatori e il verde, benché molto temperato, nella Sibilla di Cuma e nel profeta Michea nella parte alta. Ma essi annunciano già quello che, poi, nel pannello interno, sarà abbagliante. Non soltanto l’annuncio della nascita del Salvatore, ma tutto ciò che diventerà possibile grazie a quella nascita. Il mondo e tutta la creazione non sono condannati a scomparire nel nulla, ma chiamati a una vita nuova e imperitura. Sono le ultime parole di Dio: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Apocalisse, 21,5).

Solo in quel momento, la parola dell’inizio può essere pronunciata definitivamente: «Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono» (Genesi 1, 31). È quel che viene annunciato qui: non soltanto la nascita di Colui che deve venire, ma l’avvenire di tutta la creazione nella sua destinazione gloriosa. Non sono solo i profeti ad aver visto la salvezza in lontananza. La si osserva anche in alto, dove, insieme a Zaccaria e Michea, è rappresentata proprio la Sibilla cumana, d’altra parte citata nel Dies irae.

Il messaggio non vuole significare che solo alcuni saranno salvati, sfuggendo alla massa dannata. Una cosa sorprendente: qui non si vede nessun dannato. Proprio come nel Giudizio finale di Rogier van der Weyden all’Hôtel-Dieu di Beaune o in quello di Memling a Danzica. Là, il Cristo è anche attorniato da Maria e da Giovanni Battista, in atteggiamento di preghiera perché supplicano per i peccatori. Qui, Maria e Giovanni hanno un libro in mano. Non si tratta più di supplicare. Tutto è compiuto. Non sono unicamente alcuni che possono essere salvati. Si tratta, come viene detto in maniera così forte nell’Apocalisse: «Dopo ciò, apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello» (7,9).

di Jozef De Kesel