· Città del Vaticano ·

La fede di fronte alle fratture dell’esistenza

Credenti in equilibrio precario

Auguste Rodin, «Il pensatore» (Musée Rodin, Parigi, 1880 - 1902)
26 maggio 2020

Il volume Credenti in bilico. La fede di fronte alle fratture dell’esistenza (Torino, Claudiana, 2020, pagine 128, euro 13,50) andava stampato in unico incarto con l’ultima analisi pubblicata dal sociologo Franco Garelli (Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, Il Mulino, 2020). I due saggi paiono concepiti in un’unica soluzione, come gli androgini raccontati da Aristofane nel Simposio di Platone. Lo studio di Garelli ritrae un nuovo soggetto religioso, comodo a sperare, ma non a credere, ancora aggrappato a un malfermo sentimento religioso, eppure ondivago nelle valutazioni morali, «fluido» nella dottrina come nella pratica. A loro volta, Alberto Corsani e Sabina Baral, entrambi provenienti dal mondo protestante, hanno tessuto abilmente un’analisi a più voci, spesso affidata al genere brillante dell’intervista, che, se da una parte scompone la coesione organica del testo, dall’altra fornisce un quadro molto stimolante di influenze e suggestioni. Del resto, non credo che gli autori intendessero costruire uno scritto a tesi, sul genere argumentatio-demonstratio, ma trascinare una serie di pareri autorevoli (che va da Recalcati a Genre, passando per Bruno Forte, Peyrot, Levi Della Torre e tanti altri) sullo stesso argomento, per guardare in faccia un tema che, come un tetraedro, ha più vertici e più spigoli: l’equilibrio precario di un «credere» che sembra ridotto a un attivismo senza principi. Gli autori ritengono che oggi il credente, costretto com’è ad un faticoso sforzo di bilanciamento su un inadeguato baricentro di fede, sia obbligato a restare «sulle punte», in un funambolico dondolamento a strapiombo sull’incertezza. Non dimentichiamo che la Sola fide era per Lutero la causa ed il principio materiale della sua Riforma, articulus stantis vel cadentis ecclesiae, l’articolo per il quale la Chiesa si regge oppure cade. L’azione sociale delle Chiese è spesso considerata seria ed affidabile, ma chi ha curato questa raccolta, provenendo a maggior ragione proprio dal mondo protestante, si chiede se questa azione «possa bastare». Del resto, anche il Pontefice, in perfetta sintonia con questo sentire squisitamente, ma non esclusivamente luterano, in un libro-intervista di Gianni Valente ribadì che la Chiesa «non è una ong», anche se, a volte, deve agire come un «ospedale da campo».

«Incontriamo il nostro prossimo e siamo pieni di slancio», si domandano Baral e Corsani, «ma può bastare la necessità dell’altro, così incombente, così stringente, a definire la nostra identità? Abbiamo forse rinunciato a confessare la nostra fede, a dire chiaramente chi siamo e ciò in cui crediamo?». Forse «non siamo più capaci di farci afferrare dallo spirito di Dio», proseguono, «amati da Lui, cogliamo bene l’invito a farci servi degli altri, però non siamo disposti a sottometterci alla narrazione che Cristo fa di noi e che sola dà un senso alla nostra esistenza». Riduciamo il senso della nostra vita al fare, al «farci operatori del bene»; siamo disponibili a raccontare noi stessi come autori di buone scelte etiche, ma rischiamo di smarrire la consapevolezza della nostra identità.

Balbettiamo quando si tratta di spiegare al nostro prossimo o al nostro vicino di casa in che cosa consista la nostra fede. L’opinione pubblica, del resto, valuta più apprezzabile il buon risultato di un’azione sociale rispetto alla bontà dei presupposti teologici che muovono il credente allo spirito di servizio. L’idea di Baral e Corsani (che tuttavia chi scrive non condivide a pieno) è che tanto le Chiese quanto i credenti siano sempre più in grado di leggere i bisogni immediati dei loro contemporanei (e ce ne sono tanti), «ma sono incerti di fronte ai bisogni spirituali di questi ultimi». Si chiedono se il problema sia risolvibile in termini di linguaggio, cercando cioè di individuare codici più rispondenti ai tempi di oggi, o se invece vi sia un problema più rilevante a monte. Baral e Corsani paiono optare per la seconda ipotesi.

È lecito, proseguono, aspettarsi che le scienze non riconoscano alcuna cittadinanza a ciò che non si vede e non è dimostrabile, ma i credenti dovrebbero approfittarne per ristabilire uno «sguardo verticale» e ribadire quanto diceva Paolo In Romani 1, 16: «Io non mi vergogno del Vangelo». Invece, assistiamo «a una certa esitazione nel testimoniare la propria fede» e su Dio sta calando, a loro dire, un preoccupante silenzio.

Ma sentiamo nostalgia di Dio? Avvertiamo quella che Karl Barth definiva: Sehnsucht nach dem ganz Anderen, vale a dire «la nostalgia del totalmente altro»? Sentiamo ancora quel tormentoso rimpianto, così descritto da Agostino d’Ippona: «Hai fatto il nostro cuore per te ed esso è inquieto finché non riposa in te»? Gli autori sono convinti che Dio non si rassegni al nostro silenzio e che anzi voglia che «ci facciamo vivi». La postura comune delle nostre vite, però, sembra impedirlo: abbiamo perso di vista il senso della ricorrenza, la consuetudine all’ascolto, alla concentrazione, al raccoglimento; è ravvisabile in questa perdita di metodo la sempre più comoda renitenza a Dio? La domanda sta lì, senza risposta, come deve essere in un testo che non ha l’arroganza di confezionare belle sentenze su un tema così ampio e complesso.

Eppure, Bruno Forte, una delle voci di questo saggio, pare non disperare di questa sospensione nella relazione tra Dio e l’Uomo, facendo affidamento sulla struttura originaria della creatura e del suo centro spirituale, il cuore. Di questo cuore Forte parla in termini incantevoli: il cuore come «collaboratore di Dio», come parte del corpo «assetato di senso». Come a dire: non temete, l’uomo può esiliare Dio dalla sua vita, ma il suo cuore non gli darà pace; sempre, gli ricorderà dove volgersi per ritrovarlo. È fatto per questo, con buona pace della sua arroganza.

Nel nostro tempo questa arroganza sembra destinata a farsi sempre più strada, approfittando della crescente confusione tra libertà e autodeterminazione. Baral e Corsani insistono molto su questo punto: essere liberi significa innanzitutto «accettare di essere liberati», «farsi liberare», e non accanirsi in un’illusione di autosufficienza, che solitamente non sopravvive alla prima sconfitta. Per questo più che una «teologia pop», prospettano un ritorno alla teologia della croce, a una «teologia del flop», intesa non in senso classicamente «doloristico», ma come un ritorno all’umiltà dell’impotenza, trampolino della fede, che «servirebbe anche a patire, in minor misura, le delusioni».

Al tema del dolore la poetessa Vivian Lamarque sa fornire tratti leggeri e sapienti in un cantuccio del libro. Nell’autorevole cantoria della raccolta rientra anche Massimo Recalcati. La sua tesi si sposa perfettamente con quanto detto finora: la società sta espellendo da sé ogni accento di drammaticità, così «in tutti i modi cerchiamo di soffocare l’espressione del dolore». Il drammatico non è, infatti, soltanto pianto e stridore di denti, ma innesco di rapporti, senso da dare alle azioni quotidiane, introspezione e verifica di sé, e tutto questo impegna in un corpo a corpo sfibrante e tonificante con la realtà, che oggi tendiamo a sostituire con l’indifferenza. Indifferenza da cui spiccano, in peggio, solo i fanatici del dogmatismo e del relativismo, due barricate da cui Levi Della Torre, in uno splendido capitolo (che rimane il più godibile e stimolante del libro), ci mette in guardia à part égale. «Il primo (...) considera un solo lato, quello del soggetto (...), per cui la realtà è l’interpretazione»; così, «l’oggetto è assorbito e si dilegua nell’interpretazione; lo stesso accade per il dogmatismo, il quale, imponendo all’oggetto un’unica e ortodossa interpretazione, finisce per farli coincidere e per sostituire l’interpretazione all’oggetto».

Funziona anche qui il vecchio adagio colombiano: spesso, a buscar el levante, si trova il ponente. Relativismo e dogmatismo sono vicini di casa, anche se non lo sanno, ma sono entrambi, questo è sicuro, molto, ma molto lontani da Dio.

di Roberto Rosano