· Città del Vaticano ·

In «Sul filo di lana» di Loretta Napoleoni

Punti di dritto e rovescio

Jean-François Millet «La lezione di lavoro a maglia» (XIX secolo)
08 aprile 2020

Per ricostruire il tessuto connettivo della società umana


«Questo libro è la storia di un’arte straordinaria, una fonte di guarigione di cui la società ha una disperata necessità e che ci ricorda che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Per liberarci dal disagio esistenziale ci serve una cosa sola: continuare a sferruzzare di diritto e di rovescio, riannodando i fili della nostra vita».

Da questa premessa — che in questi giorni di segregazione e solitudine risulta quasi profetica — nasce l’interesse di Loretta Napoleoni (economista, saggista, consulente di governi e organizzazioni internazionali) per lana, filati, ferri e storia. Ricerche confluite nell’originalissimo libro Sul filo di lana (Milano, Mondadori, 2020, pagine 172, euro 20) tutto innervato sulla metafora della vita rappresentata dal lavoro a maglia, arte dalla storia millenaria per troppo tempo disconosciuta, negata, se non addirittura disprezzata o denigrata, e che invece nasconde la traccia — o meglio ancora la trama — della filogenesi della civiltà e della solidarietà umana.

Il viaggio dell’autrice nella storia della maglia inizia tra il 6000 e il 4000 avanti Cristo, quando l’uomo non conosceva ancora la scrittura, ma sapeva come intrecciare i fili per ripararsi dalle intemperie. «Il lavoro a maglia è strettamente legato alla natura. Si tratta di uno scambio nel quale l’ingegno umano e la creatività rivestono un ruolo rilevante, trasformando il materiale grezzo in qualcosa che soddisfa una necessità basilare, cioè ripararsi sia dal freddo sia dal caldo».

Da attività per la sopravvivenza, la maglia diventa con il tempo bene di lusso: non solo strumento per soddisfare bisogni primari dalle classi più umili, ma anche lavoro artistico per offrire all’élite beni preziosi non di sussistenza, come ricami e arazzi, e alla Chiesa splendidi paramenti sacri. Ma è l’invenzione dei punti dritto e rovescio, intorno al 1500, a determinare il grande salto di qualità: il lavoro a maglia era diventato più fluido ed elegante, i mercanti italiani fiutarono l’occasione e cominciarono a produrre calze di seta e a venderle in tutta Europa. Fu un punto di non ritorno.

Napoleoni — che nelle pagine del suo saggio confida di essere stata salvata dal lavoro a maglia — riporta con rigore scientifico le diverse ipotesi circa le origini del knitting e il suo ruolo nelle transizioni epocali. Certamente non solo per interesse storico. Nel libro, la lana viene portata fuori dalla sua pura e nobile funzione materiale e diventa racconto di vita. Si trasforma in tessuto vitale fatto di nodi, scelte, errori, intrecci, relazioni, recisioni.

Un racconto che inevitabilmente parla di donne «che hanno avuto vite silenziose, di secondo piano, invisibili» e che ciononostante, punto dopo punto, hanno modellato la nostra civiltà, intrecciando i fili impercettibili della storia. A dispetto dello stereotipo della donna intenta a fare la calza mentre l’uomo determinava il corso degli eventi, «lana, cotone, seta, filatura, tessitura e lavoro a maglia sono stati gli strumenti del potere femminile, la testimonianza del loro contributo al progresso».

Così, in Sul filo di lana, le vite di generazioni di donne dimenticate escono dall’anonimato per riprendere anima e interagire finalmente con la storia. Veniamo a scoprire che una delle più grandi rivoluzioni dell’età moderna — quella americana — è nata dal lavoro silenzioso delle «api che sferruzzano». Furono dunque le donne delle colonie a preparare il terreno per la rivolta. E nel modo più impensabile: attraverso l’artigianato e l’economia domestica. Tutte le donne che sapevano filare, sferruzzare, cucinare furono in grado di vestire e sfamare le loro famiglie senza fare ricorso alle merci provenienti dalla madrepatria, al ritmo di dritto e rovescio e di creatività culinaria: «Mentre gli uomini parlavano apertamente di insurrezione, oppure urlavano slogan nelle taverne bevendo rum, le donne organizzavano concorsi di filatura, lavoro a maglia e tessitura, in modo da produrre abbastanza tessuto da sfidare la madrepatria». Non solo. Per non dover acquistare lo zucchero dagli inglesi, introdussero nella loro alimentazione il miele, dedicandosi all’apicultura. «Eserciti di donne lavoravano insieme come api per tenere in vita le loro famiglie e le loro comunità, e per costruire la futura nazione». Sembra di vederne i volti, le mani segnate dal tempo e dalla fatica, di scrutarne i pensieri.

Più noto — ma non meno interessante — il contributo delle tricoteuses alla rivoluzione francese, ovvero delle donne che sedevano davanti alla ghigliottina lavorando a maglia, attendendo di assistere all’esecuzione degli aristocratici dell’Ancién regime. Un’abitudine apparentemente brutale, tuttavia giustificata dalla loro emarginazione politica. Erano donne che avevano marciato contro la monarchia per chiedere pane e più cibo per le famiglie. La loro protesta era stata la scintilla della rivolta, il motore della rivoluzione. Tuttavia furono messe all’angolo. Il governo rivoluzionario vietò loro di partecipare alle assemblee pubbliche e di assistere ai processi sommari che si tenevano nei tribunali parigini. Ma non si persero d’animo: «Si portarono dietro le sedie dai loro banchi del mercato e dalle loro misere case e le collocarono attorno alla ghigliottina, per poter restare tutto il giorno a osservare i loro nemici mentre venivano decapitati. E, come avevano fatto nelle assemblee e nei processi, si portarono dietro il lavoro a maglia».

Lavoro a maglia che torna silenziosamente protagonista nelle guerre mondiali: nella prima per tenere al caldo soldati mal equipaggiati in trincea, e nella seconda con le cosiddette «spie magliaie», che usavano il filato per trasmettere messaggi in codice. Roba da film. No, roba da donne protagoniste della storia e affatto subalterne. Una verità che anche il femminismo è stato costretto a riconoscere, rinunciando definitivamente all’idea del lavoro a maglia come simbolo di sottomissione femminile. Ferri e filati sono così usciti dalla gabbia dello stereotipo di genere e sono diventati strumenti di liberazione, perfino fulcro di movimenti di strada, come lo yarn bombing e l’urban knittering. Perché il lavoro a maglia fa bene e unisce.

Uomini e donne di tutte le epoche, come punti distinti e uniti, sono tessuto connettivo della società umana, e — come ha drammaticamente ricordato Papa Francesco nella benedizione Urbi et Orbi del 27 marzo — non possono vivere gli uni senza gli altri.

«Siamo tutti connessi — scrive l’autrice — ricchi e poveri, affamati e opulenti, cittadini e migranti, siamo parte dello stesso filato e del medesimo modello. Basta che manchi una tessera del puzzle è il modello non è più perfetto, comincia a disfarsi».

di Alessandra Moraca