· Città del Vaticano ·

Nella ballata di De André

Misericordia e riscatto

Renato Guttuso, «Crocifissione» (1941)
09 aprile 2020

Nel 1970 Fabrizio De André incide il suo quarto album, intitolato La buona novella, che prende spunto dai testi dei vangeli apocrifi e che ha fatto sin dall’inizio molto discutere, cosa che qui ora non si vuole continuare a fare. Nel giorno del venerdì santo, più semplicemente, potrebbe essere interessante rileggere e riascoltare l’ultimo brano di quell’album, Il testamento di Tito, che secondo lo stesso cantautore genovese è, insieme ad Amico fragile, la sua migliore canzone: «Dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha», ha dichiarato anni dopo. «È un altro di quei pezzi scritti col cuore, senza paura di apparire retorici, che riesco a cantare ancora oggi, senza stancarmene». Si tratta in realtà di un inno alla misericordia di Gesù. Rispondendo alle domande del nostro cronista Giampaolo Mattei (che poi ha raccolto questa e altre interviste a cantautori nel volume Anima mia del 1998), De André ci tenne a dire che: «Nessuno mi toglie dalla testa che Cristo avrebbe salvato tutti e due i ladroni che stavano sulla croce accanto a lui, sì, anche quello cattivo». Ma qui il protagonista sembra proprio essere quello buono: in questa lunga ballata acustica, dieci strofe ognuna dedicata a uno dei Dieci Comandamenti, si racconta infatti la vita e la morte di Tito che, secondo il vangelo arabo dell’infanzia è il nome del buon ladrone di cui parla il Vangelo di Luca, in genere ricordato come Disma. Tito è quel collega di pena di Gesù di cui riconosce la regalità e morendo in quello stesso giorno, dies natalis, con Gesù va in Paradiso (oggi infatti la Chiesa celebra la sua festa).

Però a sentire le parole della canzone di De André tanto “buono” non appare questo Tito/Disma. È un uomo arrabbiato, ferito, il suo modo di esprimersi è a dir poco risentito, rivendicativo. Un’ironia amara, pronta a scivolare nel sarcasmo, colora le sue parole, anche nei confronti di Dio, a cui si rivolge ricordandogli e quasi rinfacciandogli il suo Decalogo: «Non nominare il nome di Dio, / non nominarlo invano. / Con un coltello piantato nel fianco / gridai la mia pena e il suo nome: / ma forse era stanco, forse troppo occupato, / e non ascoltò il mio dolore. / Ma forse era stanco, forse troppo lontano, / davvero lo nominai invano». Alla luce dei Dieci Comandamenti Tito rivede retrospettivamente la sua vita e gli appare un quadro squallido, guastato. Le sue sono le ultime parole, un testamento, che pronuncia sulla sua vita osservandola dal luogo tremendo in cui ora si trova, sulla croce, condannato perché è un ladro come lui stesso ammette, ma, a modo suo, un ladro “onesto”: «io, senza legge, rubai in nome mio, /quegli altri nel nome di Dio». Questi “altri” sono i “ladri di regime”, sono i potenti che si fanno le leggi ad uso e consumo e che in nome di queste leggi condannano (gli altri) a morte: «Il settimo dice non ammazzare se del cielo vuoi essere degno./ Guardatela oggi, questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno / guardate la fine di quel nazzareno / e un ladro non muore di meno». E all’ottavo comandamento arriva il punto cruciale, l’accusa fondamentale: «Lo sanno a memoria il diritto divino, / e scordano sempre il perdono». È il fariseismo che Tito condanna, proprio di quegli ipocriti che predicano il rispetto formale della legge ma non praticano la misericordia. Una critica della religione che rivela però la ricerca di una fede vera, sincera, credibile. Una ricerca che non emerge esplicitamente lungo il corso della canzone ma si afferma sicuramente nel finale che, retrospettivamente, dona una luce nuova a tutto il brano. È infatti nel finale che la canzone compie un salto di qualità e rende questa ballata vertiginosa e commovente: la carrellata sui dieci comandamenti dopo nove strofe si interrompe di colpo, si fermano anche le chitarre e prevale l’inconfondibile voce del cantautore, ed ecco che quasi parlando all’ascoltatore accenna nell’ultima strofa agli altri due comandamenti, quelli dell’amore che, come afferma Gesù, ricomprendono tutti gli altri della legge antica.

Dopo aver sputato tutto il veleno rimasto in corpo, ecco che Tito alza lo sguardo, vince il peso della testa schiacciata sul petto a causa del supplizio e finalmente guarda oltre se stesso e vede l’altro, Gesù: «io nel vedere quest’uomo che muore, / madre, io provo dolore». Fino a quel momento era, secondo l’immagine di S. Agostino, “homo curvatus”, ripiegato su di sé, ora esce dal solipsismo e si apre all’altro e trova nell’altro un suo simile, uno nelle sue stesse condizioni, e ammette di provare per l’altro quel dolore che durante la vita aveva sempre superbamente e rabbiosamente negato (anche quando era morto “l’onorevole” padre). Tito prova compassione, in quel momento si scopre essere umano e si scopre vivo. Egli “nasce” in quel momento, alla fine di una esistenza che solo apparentemente poteva essere definita “vita”. La sua durezza si scioglie, frana. Lo capisce lì, sulla croce, che il segreto di una vita veramente umana sta in quella cosa misteriosa, l’amore, che fino ad allora non aveva compreso («io forse ho confuso il piacere e l’amore» cantava nella sesta strofa). Lo dice chiaramente l’ultimo verso, definitivo, che riscatta tutto il suo amaro bilancio: «Nella pietà che non cede al rancore, / madre, ho imparato l’amore». E non è un caso che per due volte sia ripetuta quella parola, “madre” (è la mamma di Tito o Maria?), un punto di luce nel buio del Golgota; da quel punto Tito, proprio mentre muore, può ripartire, perché «Non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale. La morte è sempre in ritardo di quell’attimo» (W. Szymborska).

di Andrea Monda