· Città del Vaticano ·

A Regina Coeli, fra collette per la Protezione civile e laboratori per capirsi e capire gli altri

Millesettecento motivi per non sentirci poi tanto migliori

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11 aprile 2020

Millesettecento euro. Per la Protezione civile, per proteggere, o curare, dal virus quelli che stanno fuori. Come se dentro invece, loro, fossero protetti. La Pasqua l’hanno celebrata così, i detenuti di Regina Coeli. Sarà un modo per sentirsi parte della società, magari. O per sentirsi meno “brutti”, meno “colpevoli”. Ammesso che chi sta fuori non lo sia. Fatto sta che il gesto, se si considera che la generosità la si misura anche con il metro del sacrificio che comporta, è di valore incommensurabile. La direttrice del carcere di Regina Coeli, Silvana Sergi, giustamente, ne va orgogliosa: «Abbiamo fatto subito il versamento — racconta —. I detenuti hanno fatto tutto da soli. E in questo momento posso assicurare che non è un segnale da poco».

La realtà dell’istituto di pena di via della Lungara, nel centro della capitale, presenta tratti particolari. Il carcere fa da sempre parte della città, non è, come può accadere per altri istituti, la parte oscura da non vedere, il luogo dello scarto. Si affaccia sul lungotevere, lo si scruta con curiosità dalla terrazza del Gianicolo. Quando, nel secondo dopoguerra, la povertà a Roma era ancora molto diffusa, così come la disoccupazione, salire quello “scalino”, subito dopo il portone del carcere, era per molti quasi un rito d’iniziazione, la presa d’atto della dura realtà della vita. Però i tempi cambiano. E anche qui la situazione è delicata: a via della Lungara arrivano gli arrestati, presi in flagranza di reato, e i fermati, i destinatari dei provvedimenti di custodia cautelare. Certe volte è come girare con un fiammifero in una pozzanghera di benzina, se non si usano le giuste parole. Se non si sa accogliere e accompagnare, anche in carcere. Nei giorni scorsi, quando il vento della rivolta soffiava veicolando segnali di tamburi lontani da un istituto all’altro della penisola, anche qui la tensione era palpabile. A causa dell’emergenza virus i contatti con l’esterno erano diventati sempre più difficoltosi, a fronte di una paradossale promiscuità tale da rendere semplicemente ridicola la nostra quotidiana psicosi del contagio. Poche protezioni, nessuna garanzia per la salute, notizie dei famigliari poche e saltuarie. Una bomba pronta ad esplodere. Però, come si dice, anche nel buio più scuro si può trovare una luce: basta saperla accendere. «Ci sono stati diversi detenuti che invece di cedere allo scontento, alla paura, si sono dimostrati comprensivi, hanno capito le difficoltà che stavamo vivendo tutti, hanno pazientato». Si sono messi dei panni di chi li tiene in custodia.

Non è stato un evento casuale però. I dirigenti del carcere hanno osservato come i più tolleranti si sono dimostrati i detenuti che da qualche tempo a questa parte partecipano a un’iniziativa già avviata con successo a Rebibbia e introdotta da qualche mese anche a Regina Coeli. Nella iv sezione, quella dei tossicopendenti, e parzialmente nella ii, il “repartino” degli “psichiatrici”, i carcerati prendono parte a una sorta di laboratorio educativo che attraverso le tecniche teatrali favorisce il lavoro su stessi, sul confronto con gli altri, sulla relazione. Spiega Sergi: «Avevo sentito parlare di questo “Metodo teatrico” e ho voluto incontrare il gruppo che lo propone, il Gruppo Eleusis. Devo dire, a distanza di qualche tempo, che è piaciuto a tutti, tanto che anche il personale della struttura mi ha chiesto di potervi partecipare. Ed è significativo, perchè per gli agenti c’è già la fatica quotidiana del lavorare, che non è poca». Al termine del laboratorio è previsto anche uno spettacolo teatrale, a suggello del percorso, sebbene l’obiettivo primario sia naturalmente quello della promozione umana. E l’esperienza è diventata tanto essenziale che, racconta la direttrice Sergi, i detenuti hanno espressamente richiesto di poter continuare a usufruirne attraverso internet, essendo le visite dall’esterno vietate a seguito dell’emergenza coronavirus.

Una fame di relazione che dovrebbe far riflettere. Racconta Arianna Donati, che coordina i volontari di Eleusis a Regina Coeli: «Devo dire la verità: la prima volta che sono entrata in carcere per la nostra attività mi sono detta con qualche apprensione: “Vabbè, ora qui ci sono i cattivi”. Invece ho trovato un rispetto, una dedizione tali che sinceramente mi sono dimenticata che mi stavo rapportando a dei carcerati. Per loro è molto importante il nostro puntare sulla valutazione della persona al di là della storia e delle scelte sbagliate che si sono fatte. Attraverso le improvvisazioni che sperimentiamo riescono a mettere in scena a volte le loro storie personali, a volte, semplicemente danno sfogo alla loro creatività».

Il lavoro viene fatto con la collaborazione costante di medici, psicologi ed educatori. E i risultati si vedono: si riacquista rispetto di sé, si rientra in contatto con l’umanità, quella che sta fuori. Spiega Emanuele Faina, fondatore di Eleusis, ideatore del “Metodo teatrico” e consultore familiare presso il centro La famiglia degli Oblati di Maria Immacolata: «Si può immaginare quanto possa fare all’interno del carcere, di una cella, un metodo che usa lo strumento teatrale in ambito relazionale. Il lavoro è un po’ quello dell’attore su sé stesso, ma naturalmente non è orientato in questo caso alla formazione artistica quanto a stabilire un dialogo con sé stessi. Invece di passare ore e ore magari a fare palestra, i detenuti si ritrovano a cercare la loro profondità, a ristabilire un rapporto più autentico con il loro corpo, con i loro pensieri, con la loro anima». Il metodo ricalca quello usato per la formazione professionale di attori ed educatori. Sebbene il gruppo Eleusis lavori nelle carceri a titolo gratuito («un servizio di accoglienza in carcere del resto non avrebbe prezzo», sottolinea Sergi) si tratta di uno dei 49 enti riconosciuti a livello nazionale dal ministero dell’Istruzione per la formazione fra l’altro di docenti e dirigenti scolastici, conta al momento oltre 5.000 utenti, ed è presente in 70 scuole in tutta Italia. A dimostrazione che anche le realtà professionali sono disposte a mettersi in gioco a titolo volontario, quando e dove serve. Lo ha fatto anche l’azienda Cisco, che fornisce la piattaforma tecnologica per il laboratorio a distanza a Regina Coeli e un addetto, Lorenzo Lento, per dare assistenza alle necessità che si presentano. Insomma, l’esperimento è destinato a durare. Lo conferma il provveditore per le Carceri di Lazio e Molise, Carmelo Cantone: «Lo stiamo estendendo — spiega — a diversi altri istituti di pena. Ora vogliono prenderne parte anche i dirigenti. Credo del resto che qualunque persona abbia responsabilità apicali abbia bisogno di riflettere sulle sue capacità relazionali, di gestione del conflitto». Soprattutto, rimane l’elemento fondamentale del “superamento” delle pareti carcerarie anche attraverso l’uso della tecnologia. Nell’ottica del principio della pena a fini rieducativi e non vendicativi, è venuto il tempo anche di affrontare senza timore il tema della comunicazione fra cella e mondo esterno. «Ci stiamo rendendo conto del fatto che il mondo digitale è un valore aggiunto — afferma Cantone —. Possiamo portare “dentro” alla realtà del carcere anche persone che sono lontane, aprirci al mondo dell’arte, della cultura. Per chi è abituato alla tecnologia questo può sembrare scontato, ma qui non lo è. Dare poi la possibilità ai detenuti di entrare in contatto costante con i famigliari è un valore. Certo, dobbiamo essere bravi a conciliare tutto questo con le esigenze proprie del regime carcerario».

Intanto però, lì dentro, qualcosa si muove. «Ci sono alcuni che una certa umanità la guardano dal buco della serratura», ha scritto un detenuto in un lettera destinata ai volontari di Eleusis. Altri la guardano in faccia e si sporcano le mani, come Arianna Donati, che quando ha bisogno «di ritrovare un po’ di umanità» corre a Regina Coeli. Per tutti, comunque, è arrivata una lezione: 1700 euro. Millesettecento motivi per non sentirci poi tanto migliori.

di Marco Bellizi