· Città del Vaticano ·

L’iconografia di una scena della Passione poco rappresentata

Il «gioco» della tunica

Andrea Mantegna, «Crocefissione» (1457-1459)
10 aprile 2020

Nel succedersi incessante di piccoli e grandi eventi, che si svolgono attorno alla drammatica narrazione della Crocefissione di Gesù, può essere estrapolato il momento in cui i soldati romani si giocano le vesti e la tunica del Cristo. L’episodio, ricordato dai sinottici, è rievocato in maniera dettagliata da Giovanni: «I soldati poi, quando ebbero crocefisso Gesù presero le sue vesti, ne fecero quattro parti — una per ciascun soldato — e la tunica. Ma quella tunica era senza cucitura, tessuta tutta d’un pezzo da cima in fondo. Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”. Così si compiva la Scrittura, che dice: “Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte”».

L’episodio ispirò l’esegesi patristica alla ricerca di un significato simbolico. Agostino, tra tutti, si ferma a cercare una ragione recondita dell’evento: «La veste del Signore Gesù Cristo, divisa in quattro parti, raffigura la sua Chiesa distribuita in quattro regioni (...) è per questo che il Signore invierà i suoi angeli per raccogliere gli eletti dai quattro venti, cioè dalle quattro parti del mondo: oriente, occidente, aquilone e mezzogiorno. Quanto alla tunica tirata a sorte, essa significa l’unità di tutte le parti, saldate insieme dal vincolo della carità» (Sermone 118, 3).

Quella tunica senza cintura, che con ogni probabilità allude al sacerdozio di Cristo in croce, in quanto l’abito del sommo sacerdote doveva essere senza cuciture, attrasse l’attenzione dei cristiani nel tempo, generando anche una forma di espressione devozionale, che culmina nel culto delle reliquie conservate nel duomo di Treviri.

Tracce iconografiche dell’episodio evangelico sembrano comparire già nella seconda metà del iv secolo, nell’ipogeo romano di via Dino Compagni, scoperto sulla via Latina nel 1955, mentre si costruiva una palazzina. Il monumento, come è noto, ha restituito un ricchissimo patrimonio pittorico, che propone scene bibliche, rappresentazioni profane e un repertorio decorativo che si ispira alla tradizione ellenistica e che intrattiene un intimo rapporto con la raffinata architettura negativa.

Il carattere privato del monumento funerario apre un ventaglio di manifestazioni iconografiche estranee al linguaggio figurativo paleocristiano, proponendo anche scene particolarmente violente — solitamente evitate dai cristiani — come dimostra la drammatica megalografia di Sansone che uccide i filistei con la mascella d’asino. Nel programma decorativo, che conta oltre cento unità pittoriche, spunta anche l’episodio di cui stiamo parlando. Descriviamolo secondo la succinta edizione del padre Antonio Ferrua, che vide la pittura prima che fosse parzialmente coperta dai pali di posa del palazzo: «Nella lunetta dell’arcosolio, in un quadro di 110 per 190 centimetri sono rappresentati i soldati che si giocano la tunica di Gesù. Nello sfondo è il sepolcro del Cristo, fatto come quello di Lazzaro (...) una specie di tempietto su alto podio con scala davanti alla porta e le pareti laterali munite di varie finestre. In primo piano sono due soldati romani con tunica corta e clamide, scarpe ai piedi e berretto cilindrico in testa: quello di destra tiene le aste di tutti e due; da una parte sono collocati su dei supporti i loro grandi scudi umbonati. In mezzo a loro è lo strumento da gioco: un supporto da cui sorgono due aste con una traversa, attorno alla quale gira un vaso dalla cui stretta bocca escono dei dischetti grandi come monete (...) L’uno dei soldati fa girare il vaso con la destra, l’altro sembra indicare e commentare l’uscita dei dischetti».

Il resoconto, steso secondo il linguaggio dell’epoca, lascia comprendere tutta la meraviglia per una scena che ruota attorno alla situazione tragica della Crocefissione, che apparirà solo nel pieno v secolo nella porta lignea della basilica romana di Santa Sabina. È vero che già nel III secolo una coronazione di spine appare nella decorazione del cosiddetto cubicolo della Coronatio nel cimitero di Pretestato sulla via Appia Pignatelli, ma scene relative alla Passio Christi giungono soltanto dopo la pace della Chiesa, nei cosiddetti sarcofagi di passione, di produzione romana, con la rappresentazione dell’arresto di Cristo, del giudizio di Pilato, del cireneo e proprio e ancora della coronazione di spine, ma il tutto è attutito dal segno dell’Anàstasis, ossia dal labaro cruciforme coronato e insignito dal cristogramma dinanzi al quale due soldati romani dormono o sono storditi dalla luce della resurrezione.

Il “gioco della tunica”, invece, si presenta come un unicum per l’età tardoantica e dovremo attendere il pieno Medioevo per incontrare un’allusione figurativa all’episodio. Mi riferisco all’altorilievo scolpito da Benedetto Antelami nel 1178, conservato nel transetto della cattedrale di Parma. Il marmo presenta la data di realizzazione e la “firma” dello scultore: Anno milleno centeno septuageno/ octavo scultor pat(ra)vit m(en)se se(c)u(n)do // Antelami dictus sculptor fuit hic Benedictus (Nell’anno 1178, nel mese di aprile, uno scultore realizzò [quest’opera]; questo scultore fu Benedetto detto Antelami).

L’altorilievo “fotografa” il momento in cui il Cristo è calato dalla Croce e quello della resurrezione. I busti del sole e della luna — secondo la tradizione bizantina — vogliono esprimere l’atmosfera epocale, in cui il tempo e lo spazio sono sospesi.

Al centro della raffigurazione, il Cristo viene sorretto da Giuseppe di Arimatea, dalla Vergine e dall’arcangelo Gabriele, mentre viene calato dalla croce. Attorno si riconoscono la personificazione della Chiesa, san Giovanni, Maria Maddalena e Maria Salome. La croce, su cui si legge la didascalia Ihesus Nazarenus rex Iudeorum, presenta le caratteristiche dell’albero della vita, che già allude, come è evidente, alla Resurrezione. La scena è anche animata da Nicodemo, su una scala, che toglie il chiodo, dalla personificazione della Sinagoga, dall’arcangelo Raffaele, da un centurione e da un drappello di soldati.

Ma la scena, che più ci interessa è quella costituita da quattro uomini, due imberbi e due barbati, seduti su sgabelli, con la tunica del Cristo tra le mani. La raffigurazione vuole proprio fermare il momento in cui i quattro militi riflettono sulla maniera di dividere la tunica senza cuciture, incerti sul da farsi, allorquando decidono di non tagliare la stoffa, ma di estrarla a sorte.

L’episodio non incontrò troppa fortuna nell’arte moderna e trovò la sua espressione più definita nella tavola di Andrea Mantegna conservata al Louvre e dipinta tra il 1457 e il 1459. La crocifissione qui rappresentata è organizzata in due registri: mentre in alto svettano le croci del Cristo e dei ladroni, in basso si muovono i soldati, il gruppo delle pie donne e san Giovanni, mentre sullo sfondo si staglia su una rupe la città di Gerusalemme. La nostra attenzione è attratta dalle guardie che si giocano ai dadi la veste del Cristo, su una tavola colorata circolare che trova il contrappunto nella piccola grotta colma di teschi.

Tutte queste raffigurazioni, che, con schemi diversi, attraversano il tempo che dall’età paleocristiana giunge all’età moderna, testimoniano la volontà di rievocare un episodio, che può sembrare secondario rispetto al nucleo drammatico della Crocefissione; ma vogliono anche esprimere, riprendendo il pensiero di Agostino, l’unità di quella tunica senza cuciture, tenuta insieme dalla trama della carità.

di Fabrizio Bisconti