· Città del Vaticano ·

Il racconto dei volontari di Sant’Egidio che mantengono vivo il dialogo con chi è in carcere

Busta e francobollo: il filo diretto con i detenuti al tempo del virus

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04 aprile 2020

«Ero in carcere e siete venuti a trovarmi». I versetti del Vangelo di Matteo per i volontari che ogni giorno sono alle prese con le consegne di beni di conforto, domandine, richieste di ogni tipo, colloqui e con tutto ciò che allevia la sofferenza del detenuto sono stati la strada maestra anche al tempo del coronavirus. Ma come, in mezzo ad una pandemia inattesa che ha creato nuove sofferenze a chi vive recluso? Offrendo inchiostro, fogli e francobolli a persone che, temporaneamente private della propria libertà hanno avuto l’occasione di mantenere un filo diretto con l’esterno. Una iniziativa che è stata interpretata come uno dei pochi mezzi per non troncare del tutto i legami con il mondo che sta fuori, con i propri familiari e non perdere la dignità e il rapporto con se stessi.

Maurizio Aletti della Comunità di Sant’Egidio che opera nella casa circondariale di Genova-Marassi ci racconta che «In questo momento i detenuti sono soggetti a restrizioni ancora più pesanti perché non potendo ricevere nulla e, soprattutto, non avendo la possibilità di incontrare i propri familiari, sentono il peso maggiore del loro essere emarginati. Ecco, noi siamo lì a ricordargli che non sono esclusi» spiega Aletti. Già, ma in che modo? «Attraverso piccoli doni, dolci, biglietti contenenti messaggi di incoraggiamento, un po’ di tabacco, piccole somme di denaro», risponde. «Questo per testimoniargli la nostra vicinanza e ricordargli che sono sempre nel nostro cuore. Qui a Genova ci è stato consentito, seppur brevemente e con tutte le precauzioni del caso, di incontrarli. Così gli abbiamo raccontato che ciò che loro possono vedere solo attraverso la tv, è purtroppo tutto vero. Le strade sono deserte, le persone sono a casa, i negozi chiusi e c’è ovunque molta preoccupazione per la presenza, e la diffusione, di un nemico invisibile che miete vittime».

Dalla Liguria al Piemonte. Paolo Lizzi, sempre della Sant’Egidio, svolge il suo prezioso servizio a Novara e a Vercelli. All’inizio di marzo, prima della rapida diffusione del covid-19, ha giocato, inconsapevolmente d’anticipo. Ma è stato un bene: «Il mese scorso avevamo pensato di distribuire alimenti soprattutto a Novara. Ci siamo mossi muniti di mascherine e guanti per la consegna di latte, caffè, biscotti, capi di abbigliamento e prodotti per l’igiene personale. Questo ci ha consentito di rendere fruttuosa la nostra spedizione perché con l’inasprimento delle misure di sicurezza, non abbiamo potuto più incontrarli». Anche Lizzi, però ha pensato bene di mantenere vivo il contatto attraverso la vecchia cara corrispondenza: «Per non far mancare il nostro sostegno,  inviamo decine e decine di lettere». Lizzi ci legge, non senza commozione, la risposta di uno dei destinatari: «Grazie mille. Mi avete fatto una bellissima sorpresa, non me l’aspettavo. Vi ringrazio di avermi scritto. Grazie per tutto, per gli alimenti che ci avete portato a Carnevale, per i francobolli e l’immagine di Gesù. Spero che si risolva tutto, che si trovi il vaccino più presto possibile, prego ogni giorno perché soffro al solo pensiero che tutti stanno male. Sono preoccupato soprattutto per gli anziani che sono più a rischio, quelli che vivono nelle case di riposo. Penso anche ai bambini che non possono più uscire come prima o andare a scuola».

Nel Lazio, Silvia Marangoni, anche lei volontaria della Comunità di Sant’Egidio ha scelto, insieme agli altri volontari, la via più classica per comunicare con gli ospiti degli istituti: lettera e francobollo. Sistema certamente obsoleto ma che in carcere ha trovato la strada maestra per costruire ponti con l’esterno: «Abbiamo cominciato a scrivere lettere, manifestando il nostro dispiacere di non poterli incontrare. Devo dire che la corrispondenza cartacea per noi è comunque una modalità. Soprattutto negli istituti che frequentiamo meno. Anche perché non tutti possono accedere alla mail ufficiale perché è un servizio che ha un costo. Non tutti possono permetterselo», rivela Marangoni. «Meglio mantenere vivo il contatto inviando una missiva. Le risposte puntualmente arrivano e sono tutte dello stesso tenore: paura, inquietudine, stress, incertezza per il futuro. Singolare quella di due ragazzi musulmani che hanno manifestato la loro profonda preoccupazione per i nostri anziani. Non dimentichiamo di pregare ogni giorno per loro, hanno scritto. È con i nostri volontari più anziani, infatti, che i detenuti hanno un rapporto speciale in virtù del fatto che sono loro che si occupano della preparazione dei pacchi che noi portiamo in carcere».  Secondo monsignor Segundo Tejado Muñoz, sottosegretario del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale: «La presenza dei volontari, anche attraverso la corrispondenza, è fondamentale. La situazione dei carcerati in questo momento è molto particolare e noi, per certi versi, ci troviamo nella loro stessa condizione perché nel nostro isolamento forzato viviamo il disagio di non poter vivere i rapporti umani». Monsignor Muñoz sottolinea che:  «Quando il rapporto con le persone si interrompe, si entra in una profonda crisi. I detenuti conoscono questa condizione perché la vivono abitualmente. Quello di incontrarsi e di avere relazioni è un immenso dono che la vita offre all’uomo e ce ne accorgiamo solo ora che non possiamo uscire di casa». «Aggiungo — spiega il sottosegretario — che in un momento come questo è di fondamentale importanza la voce. Va bene il messaggio scritto, il Whatsapp, ma quando ascolto il suono di una persona, sento la persona stessa». «Capiscono più di tutti — precisa — quanto è importante il contatto. Quando ricevono le visite, incontrano i familiari, vivono in prima persona la gioia dell’abbraccio. Nel momento in cui si accorgono che la società vive la loro stessa esperienza, si avvicinano». Monsignor Tejado Muñoz, infine, ricorda la costante vicinanza di Papa Francesco ai detenuti di tutto il mondo: «Dobbiamo diventare tutti carezza, così come fa il Santo Padre tutti i giorni ricordando nella preghiera questi nostri fratelli. A loro regala sempre una parola di speranza e di vita. La nostra sarà una carezza che, per ovvi motivi, al momento non possiamo dare, ma che possiamo far arrivare attraverso la nostra voce e la nostra parola. L’uomo non può vivere senza l’altro e questo già lo sapevamo. Ce ne stiamo rendendo conto ora e in un momento così drammatico dobbiamo essere capaci di recuperare il senso dello stare insieme. Cosa che i detenuti conoscono molto bene».

di Davide Dionisi