· Città del Vaticano ·

La Pasqua dei cappellani che assistono i carcerati in un periodo particolare della loro esperienza

Accanto ai detenuti in un mondo di reclusi

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21 aprile 2020

C’è una figura particolare che entrando in un carcere, incontrando le persone, ascoltando i loro desideri, i loro sogni per il futuro, stabilisce una relazione che, prima di tutto, allontana tanti uomini e tante donne dalla solitudine. Gli dà valore e le accompagna verso il cambiamento e, con pazienza, realizza una vera rieducazione. È il cappellano del carcere, colui che all’interno di un moderno lazzaretto continua a pensare (e a dire) che ogni persona è sacra, e possiede una dignità inviolabile donata da Dio a prescindere dalla condizione sociale in cui ci si trova. Colui che segue, accompagna e consola chi si trova ristretto, a chi pensa con rimpianto o con rimorso ai giorni in cui era libero, e subisce con pesantezza un tempo presente che non sembra passare mai. Soprattutto in un periodo inedito come quello che stiamo vivendo. E soprattutto nel tempo liturgico forte dell’anno. Ma che Pasqua è stata quella di quest’anno per i detenuti delle carceri italiane? Per don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, «è stata la Pasqua di sempre, perché anche in questo momento buio di sofferenza e di angoscia per tutta l’umanità, Cristo è risorto e continua a risorgere attraverso le nostre opere e i nostri messaggi che, nonostante le opportune restrizioni, continuiamo ad inviare ai fratelli detenuti». Don Grimaldi racconta di aver contattato tutti coloro che vivono le tante realtà di detenzione nel nostro paese: dai direttori, agli agenti di polizia penitenziaria, fino ai volontari e naturalmente ai cappellani e agli ospiti degli istituti. «L’ho fatto perché conosco le loro paure e quelle dei familiari. E per questo ho scritto anche a Papa Francesco, ringraziandolo per tutto quello che sta facendo per il nostro mondo». In un momento in cui tutti hanno avuto enormi difficoltà a entrare, il cappellano è rimasta una delle rare figure a cui è stato consentito l’accesso. «Si comprende quanto sia determinante una presenza simile che, comunque, riesce ad assicurare un minimo di approvvigionamento per i più poveri e un canale di comunicazione con chi non riesce a parlare con i cari. Anche in questa occasione abbiamo scelto la prima linea perché, secondo noi, i carcerati sono gli amici di Gesù e il nostro compito è quello di seminare in questi luoghi di dolore e sofferenza l’annuncio della Speranza», rileva l’ispettore.

Don Umberto Deriu, cappellano della Casa di reclusione di Tempio Pausania, nel descrivere il carcere sardo, parla di “clima disteso”. Sono venuti meno i colloqui in presenza, ma i ragazzi possono contare sulle videochiamate. «Questo è già un grande sollievo perché sono molto legati alle loro famiglie. Ho cercato di spiegargli che di fronte a una situazione inedita e a un nemico invisibile, siamo detenuti anche noi. Riusciamo così a capire cosa vuol dire vivere da ristretti. Certo, ci mancano i momenti di condivisione, la messa, ma loro vivono la fede in modo diverso: pregano e cercano di impegnarsi per migliorare. Così avranno una vita più onesta quando usciranno da qui. Ma gli ripeto sempre che nel loro cuore non deve esserci la paura, ma la speranza».

Per don Luigi Mazzocchio, sacerdote nel carcere di Agrigento, «il coronavirus ha messo in secondo piano tutte quelle che sono le emergenze della vita carceraria. Il timore di essere contagiati serpeggia. Non solo tra gli ospiti, ma anche tra gli agenti». Cosa chiede il detenuto al cappellano in questo periodo così difficile? «Soprattutto benedizioni» rivela don Deriu. «E poi ricariche telefoniche e contatti con gli avvocati. Soprattutto quelli che hanno situazioni in via di risoluzione premono per uscire. Quindi il cappellano è l’uomo di tutti, la presenza amica che dà conforto». E la Pasqua a Tempio Pausania? «È evidente che la nostra è stata più una Pasqua da Venerdì Santo che di Resurrezione, una passione che non sappiamo ancora quanto debba durare. Ma il messaggio è tutto fuori dal Sepolcro, lontano dalla tristezza che ci ha segnato a causa della pandemia. Fuori per risorgere come persone nuove, capaci di costruire un mondo diverso», aggiunge il cappellano e commenta: «Si lamentano dei colloqui, anche se Skype gli consente di sentire e vedere i propri familiari. Ma a loro manca il contatto fisico. Ma cerco di spiegargli che presto riavranno la possibilità di riabbracciarli e di tenere ben presente che il virus più grave non è il covid-19, ma il peccato».

Don Cristian Sciaraffa presta servizio nella casa circondariale di Bellizzi Irpino: «Questo è un tempo che sta mettendo alla prova tutti, in particolare noi che siamo in carcere» chiarisce. «Al Cappellano è richiesta tanta pazienza, soprattutto nell’ascoltare i ragazzi. Ora deve uscire il meglio di loro, non il peggio. La generosità che hanno manifestato, mettendosi a disposizione, è un segnale forte. Pensano ai loro cari, a ciò che potrebbe capitargli e si lamentano della loro assenza. La mia risposta è sempre la stessa: per rafforzare un abbraccio lo devi rimandare. La Pasqua verrà». Don Sciaraffa ha un metodo tutto suo, ormai collaudato, per un approccio vincente: «Ho una regola, quella delle tre P, piccoli passi possibili. Dobbiamo prepararci a quando usciranno perché una persona che è stata trenta anni in carcere, se va via con lo stesso cuore con cui è entrato, il nostro sforzo è stato vano. Il dramma non è essere carcerato, ma abbandonato».

A Potenza c’è padre Janvier Ague, cappellano della Casa circondariale che segnala: «All’inizio i ragazzi hanno organizzato una manifestazione pacifica e hanno inviato una lettera, peraltro pubblicizzata anche dai media locali, nella quale esprimevano la loro vicinanza alle persone colpite dal covid-19, così come ai medici, agli infermieri e ai volontari della Protezione civile». Il ruolo di Padre Ague al tempo del coronavirus è chiaro: «Prima di tutto il Cappellano è la presenza della Chiesa all’interno del carcere, quindi è chiamato ad affiancare e sostenere non solo i detenuti, ma anche le guardie e il personale amministrativo. Non è lì per giudicare, ma è una presenza che deve infondere serenità e tranquillità. In questo periodo particolare deve rappresentare anche il collegamento con l’esterno». Poi rivela: «Le video chiamate sono state provvidenziali. Ho visto tanti ragazzi commuoversi nel rivedere la propria casa, i familiari che non riescono abitualmente a venire ai colloqui. Ho assistito anche al pianto di uno di loro nel riaccarezzare, seppure virtualmente, il suo cane. Dico sempre ai giovani che possono fare esattamente quello che si sta facendo fuori, rimanendo vicino a chi sta soffrendo e regalando un sorriso al compagno di cella».

di Davide Dionisi