· Città del Vaticano ·

Il 9 aprile 1945 l’uccisione di Dietrich Bonhoeffer nel lager di Flossenbürg

A costo di bruciarsi le dita

Dietrich Bonhoeffer in un disegno pubblicato su Anglicanforum
07 aprile 2020

Il 9 aprile 1945 Dietrich Bonhoeffer venne impiccato nel lager di Flossenbürg. Aveva trentanove anni. Insieme a lui c’erano l’ammiraglio Canaris, il generale Oster, il giudice Sack e il capitano Gehre. Da quando la Gestapo aveva scoperto negli archivi di Zossen alcuni documenti che dimostravano il loro coinvolgimento nel fallito attentato contro Hitler del 20  luglio 1944, queste persone non ebbero scampo. Se le avevano lasciate ancora vive, era solo perché i nazisti speravano di poter ricavare delle informazioni da qualcuno di quei detenuti eccellenti. In particolare l’ordine di uccidere Bonhoeffer partì dal Führer in persona, rinchiuso nel bunker di Berlino.

Stiamo parlando di un pastore luterano, uno dei più grandi teologi del Novecento: definizione corretta, benché insufficiente. Molti anni fa, al termine di un viaggio, consapevolmente spericolato, sulle sue tracce, mi chiesi cosa avessi imparato da lui. «Spendersi, contar niente, sporcarsi le mani, lasciarsi trafiggere dal punto di vista altrui, essere pronto a perdere tutto e ricominciare da capo»: ecco le prime risposte che mi vennero in mente. Ognuna di esse ha continuato ad aprire, dentro di me, proficue risonanze: ma sempre più mi accorgo che queste parole vanno riconquistate ogni giorno, quasi fossero cime impervie. Non si possono dare per acquisite.

Nella primavera del 1924 Dietrich, con il fratello Klaus, compì un viaggio in Italia, fermandosi in particolare nella capitale. Nel diario non mancò di annotare due visite alla basilica di Santa Maria Maggiore: «Ho visto con piacere così tanti volti seri, per i quali non vale tutto ciò che si dice contro il cattolicesimo. È molto toccante vedere che anche i bambini si confessano con autentico fervore».

Sin da ragazzo sentì l’inadeguatezza di qualsiasi formula precostituita. Voleva toccare con mano le cose, a costo di bruciarsi le dita: superò quindi la pura dimensione verbale per affrontare la realtà.

Tutta la sua esistenza si configura come un’espansione d’energia che lo spinse ad abbandonare, alla maniera di un rottame sul bagnasciuga, la semplice cura di sé: dalle lezioni accademiche di Adolf von Harnack alla scoperta del  Don Chisciotte, dalle aule universitarie ai casali di Finkenwalde, dalle corride di Barcellona alle chiese nere di Harlem, dalla vanità personale alla piena consapevolezza del destino comune. Bonhoeffer, come avrebbe fatto un uomo in corsa che perde sangue, restò nel fuoco dialettico della terribile controversia storica in cui si trovò a vivere, senza credere di poter conservare una coscienza immacolata: la mise anzi costantemente a rischio nelle relazioni personali, a costo di alienarsi le simpatie di chi gli stava accanto, ad esempio Karl Barth, il suo primo mentore.

Ciò avvenne nelle scelte supreme (il ritorno dagli Stati Uniti nel 1939, l’estrema accettazione tragica di Schőnberg, in Baviera, quando gli scagnozzi di Hitler lo prelevarono per l’ultima volta per destinarlo al patibolo); ma soprattutto nella quotidianità, pubblica (i congressi ecumenici degli anni Trenta, la cattedra e il pulpito) e privata (il culto dell’amicizia, la passione familiare, il fidanzamento con Maria von Wedemeyer). 

La prospettiva che si fa largo in lui a partire dai capitoli raccolti nell’Etica,  specie quello centrale dal titolo La struttura della vita responsabile,  ci consegna l’immagine dell’uomo completo, integrata, negli anni del carcere, anche dalla lettura del Witiko, celebre romanzo di Adalbert Stifter: uno dei lasciti più appassionanti della straordinaria testimonianza bonhoefferiana. Come dobbiamo intendere tale indicazione? Non l’individuo delle possibilità, bensì quello dei limiti. E della tragica consapevolezza del male, nel segno della statua del Laocoonte, ammirata sin da ragazzo ai Musei vaticani e subito collegata a Isaia, “uomo dei dolori”. Basta entrare in quest’ottica per uscire dalla vulgata vitalistica novecentesca del viaggio senza ritorno, del deragliamento dei sensi, dell’arbitrio analogico. 

La persona a cui pensa Dietrich Bonhoeffer non esegue un programma teorico stabilito in anticipo a tavolino, neppure si limita a sviluppare armonicamente le sue attitudini, fossero anche speciali e rare. Accetta se stesso dentro la sequela di Cristo, rigettando il criterio del successo (inteso come riuscita) quale misura e giustificazione dei propri gesti. Aderisce al mondo delle cose nell’esercizio di una responsabilità attiva dalla quale sarebbe vano pretendere una salvaguardia individuale.

La fede non è una polizza d’assicurazione. La Chiesa non è una farmacia. Dio non è un tutore. E neppure un tappabuchi. Dobbiamo crescere, diventare autonomi, maggiorenni, uscire con risolutezza dall’eterna indecisione, dagli ossimori che paralizzano, dai discorsi retorici, mettendoci alle spalle tutti gli alibi interiori. Un uomo così risulta vulnerabile perché disposto, nell’imitazione evangelica, a prendere su di sé la colpa; dire la verità non significa semplicemente dirla: bisogna tener presente le conseguenze che si producono. Chi vive sbaglia.

L’azione veramente significativa non scaturisce dalla virtù privata, paga di se stessa, ma cerca ad ogni costo lo sguardo dal basso: quello degli esclusi, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti. Sono questi i grandi temi presenti nelle sue opere fondamentali:  Vita comune,   Sequela,   Etica  e soprattutto  Resistenza e resa,  un libro che può davvero cambiare la vita di chi lo legge, composto nel carcere berlinese di Tegel, sotto i bombardamenti dell’aviazione alleata. Le azioni senza verifica sono destinate a fallire, ma anche le parole prive di riscontri si trasformeranno presto in piante a cui manca l’acqua. Spugne secche. Sterili vaticinii. Fino alla dichiarazione più bella: «Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene».

di Eraldo Affinati