“Populismo” è ormai una parola entrata con prepotenza nel linguaggio quotidiano, e con l’uso corrente si è riempita di significati diversi, che mutano a seconda dell’utilizzatore. Non è una circostanza priva di conseguenze anche importanti sul piano politico. Se si dovesse oggi dare una definizione di “populismo” ci si troverebbe in difficoltà. Solo a titolo di esempio, qualcuno lo potrebbe definire come l’atteggiamento di chi cerca di blandire l’opinione pubblica con argomenti di facile presa: il risultato in questo caso sarebbe quello di fare entrare nella categoria la stragrande maggioranza dei leader e partiti politici di tutto il mondo e di tutte le epoche. Oppure si potrebbe fare il percorso contrario, individuando dapprima il movimento o il leader populista per trarne elementi comuni, quali per esempio, l’intolleranza, una certa predilezione per l’autoritarismo, il disprezzo per le forme tradizionali di mediazione politica, la critica radicale all’establishment. Ciò porterebbe dritti all’identificazione del populismo con i regimi totalitari del secolo scorso, lasciando fuori dall’analisi, per esempio, tutti quei fenomeni che oggi qualcuno definisce, con un azzardato ossimoro, “democrazie illiberali” o comunque le varie esperienze che in diverse parti del mondo vengono catalogate come populismo senza oggettivamente presentare le caratteristiche tipiche delle dittature.
In questo caso dunque l’analisi scientifica (della scienza della politica) è quanto mai preziosa, perché consente di fare opportune distinzioni e di non indugiare in pregiudizi che forniscono semmai a chi li subisce facili argomenti di contestazione. E, a partire dalla genesi storica della democrazia e dalle sue evoluzioni, aiuta a collocare il fenomeno nella giusta prospettiva. Il libro di Nadia Urbinati, professore ordinario di Teoria politica alla Columbia University di New York, è, per i motivi sopra accennati, un contributo estremamente utile. Il volume Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia (Il Mulino, Bologna, 2020, pp. 339, euro 24) contiene già nel titolo il punto di approdo di un ragionamento condotto con un rigore accademico ben incarnato nella realtà quotidiana della politica. Giacché, come scrive l’autrice, «il dibattito sulla natura del populismo è a tutti gli effetti un dibattito sull’interpretazione della democrazia».
La tesi è dichiarata: il populismo non è un fenomeno che può essere separato dalla democrazia, non vi si contrappone come alternativa, anzi esso potrebbe essere considerato alla stregua di un parassita che ha bisogno di un organismo ospite (la democrazia appunto) per poter sopravvivere. Ciò accade sia quando il populismo è inteso come movimento di base sia quando esso si presenta come forza di governo. Secondo Urbinati, tuttavia, è proprio in questa seconda fase che si opera la più netta trasformazione identitaria del fenomeno populista, che fatalmente, o sfocia nella creazione di un partito come tutti gli altri, oppure si fa espressione di un “maggioritarismo radicale” nel quale la sovranità viene di fatto attribuita a ciò che si autodefinisce “vero popolo”, di cui solo un leader che non faccia parte dell’establishment può presentarsi come autorevole rappresentante. Di fatto, tutte le altre forze politiche, pur legittimate a partecipare alla competizione politica, sono considerate eversive. In questo senso, afferma Urbinati, «il populismo al potere è in verità una neonata forma di governo misto (popolo + leader) nella quale una parte della popolazione conquista un potere preminente rispetto all’altra o alle altre».
Il processo, in una descrizione che qui deve per necessità essere sintetica, si articola più o meno in questo modo: la crisi della rappresentanza, la sfiducia nei partiti come strumenti di intermediazione e nelle reali possibilità dei cittadini di incidere nella vita politica, insieme con i disagi economico-sociali, costituiscono di fatto un magma disordinato che attende di essere plasmato, espresso e incarnato da un leader che si pone come unico interprete e rappresentante della volontà sovrana.
Quest’ultimo, che non appartiene all’establishment ed è quindi considerato come “uno della gente” (non importa se ricco o povero, l’importante è che non provenga dalla classe politica tradizionale o dai cosiddetti “poteri forti”) in questa continua opera filologica genera al tempo stesso priorità e presunti valori popolari. La differenza con la propaganda politica in generale, rileva Urbinati, riposa proprio nel considerare la propria fazione come unica autentica espressione democratica rispetto ad avversari che vengono presentati come esponenti di interessi economici e politici inconfessabili. Diversamente dai regimi totalitari, che pure hanno vissuto la stessa genesi, il populismo non ambisce quindi ad abolire le elezioni, che costituiscono invece, per così dire, una “assicurazione sulla vita”, il luogo della separazione fra il “noi” e il “loro”, la certificazione periodica che il leader non fa parte dell’establishment neanche una volta arrivato al potere. Tuttavia il populismo tende a trasformare le istituzioni, le quali, in questa ottica, diventano obsolete e, dovendo ontologicamente rispondere a tutta la cittadinanza, intralcio a un’efficace azione politica.
«La figura del leader e il partito sono le due componenti fondamentali della democrazia populista», mentre «il populismo al potere è sotto ogni riguardo, una forma di rappresentanza diretta», scrive Urbinati, in cui la diarchia anche temporale propria della democrazia, fra opinione (del popolo) e volontà (dei governanti) viene risolta in una politica del “qui e adesso”, nell’illusione, secondo l’autrice, di una consultazione permanente dell’elettorato. «In questo modo la struttura dei partiti non viene semplicemente trasformata: diventa obsoleta», le istituzioni, come accennato, vengono considerate inadeguate e vengono svuotate di potere: si può parlare a buon titolo di una «trasformazione populista della democrazia» mentre «internet è diventato l’incubo futuro che tutti i politici temevano: la fonte di un referendum quotidiano sulle loro azioni».
Insomma, il populismo diventa una sorta di «democrazia del monitoraggio reale» nel quale le decisioni e le priorità vengono però prese attraverso un’inquietante procedura di acclamazione digitale (soprattutto quando le piattaforme tecnologiche dove si tengono le consultazioni rimangono private e non forniscono garanzia di indipendenza ed imparzialità).
Ciò detto, se il populismo è «la celebrazione del disincanto politico: la fine di tutte le utopie e idealizzazioni», in ogni caso «uscire dal populismo non può significare tornare a dove eravamo prima», afferma Urbinati. Perché se è vero che «senza il leader non esisterebbe il popolo populista come soggetto collettivo», e se è vero che il populismo «è, sotto ogni riguardo, un esito del malfunzionamento della democrazia dei partiti», la cura della democrazia «non può che essere cura delle istituzioni intermedie e dei partiti in particolare», così come, si potrebbe aggiungere, la cura di una corretta, libera e indipendente informazione.
di Marco Bellizi