Riprendiamo da «La Rivista del Clero Italiano», Anno lXXXVII, luglio-agosto 2006, n. 7/8, pp. 802-809, un intervento del cardinale Carlo Maria Martini, pronunciato a Lodi pochi mesi prima. Sulla difficile trasmissione della fede, il cardinale approfondiva il metodo apostolico saldamente appoggiato alla tradizione ebraica.
Nel Nuovo Testamento la seconda lettera a Timoteo — insieme alla prima a Timoteo, nonché a quelle inviate a Tito e Filemone — è una delle poche scritte a destinatari singoli e “privati”, dal momento che la maggioranza delle lettere paoline e delle restanti apostoliche sono per lo più indirizzate a comunità. In questo pacchetto di lettere indirizzate a singoli destinatari, la 2 Timoteo possiede l’originalità di essere certamente la più affettuosa e ricca di emozioni, la più intima e familiare. Traboccante di affetti profondi, merita d’essere letta proprio con tutta la profondità del nostro cuore. (...) Colpisce qui che Paolo consideri la propria fede, il proprio apostolico servizio di Dio collocandolo nella linea di continuità dei suoi stessi antenati, cioè, evidentemente, in virtù della sua fede ebraica! (...) Sull’onda dei ricordi, Paolo ha poi ben presente la fede schietta di Timoteo, «fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (1, 5). Anche qui, nessuna soluzione di continuità.
Tra la mamma e la nonna di Timoteo da un lato e lo stesso Timoteo dall’altro, è intervenuto nientemeno che Gesù, morto e risorto. Ma nonna Lòide e mamma Eunìce credevano con quella medesima fede comunque giunta anche a Timoteo, e che a propria volta raggiunge la sua pienezza con la fede nella risurrezione di Gesù, in ogni caso fondata sulla stessa solidità su cui sta fondata la fede dei suoi antenati. Proprio questa solida fede ebraica vorrei un poco approfondire, magari di nuovo interpellando direttamente a Timoteo, domandandogli: «Timoteo, qual era questa tua fede, qual era la fede della tua nonna, la fede di tua madre?».
E ho ragion di credere che egli potrebbe risponderci più o meno così: «È come la vostra, certamente. Forse con qualche diversa sfumatura, perché voi — direbbe Timoteo —, voi occidentali, partite sempre dall’alto delle definizioni concettuali. (...) Ecco la fede ebraica, come l’aveva ricevuta Timoteo prima del battesimo: concepita non astrattamente, ma a partire da esperienze concrete, dalle azioni messe in opera da Dio (...). Voglio riferirmi ancora qui all’esperienza del popolo ebraico, quella che quotidianamente vado facendo in Israele, dove per trasmettere la fede non ci sono catechismo, catechisti, e nemmeno ore di religione. Come viene allora trasmessa la fede? In famiglia, non attraverso delle definizioni astratte, fatte imparare a memoria, ma attraverso la celebrazione delle varie feste.
Le feste sono il grande luogo di insegnamento della fede per il bambino ebraico. E le feste: per esempio in questi giorni si celebrava la festa bellissima del capodanno ebraico, Rosh-haschanah, che cade a settembre, appunto all’inizio dell’anno. Poi la festa autunnale di Sukkot, cioè dei Tabernacoli o delle Tende, legata al raccolto dei frutti della terra, quando, nel giardino di casa o sul piccolo terrazzo, o sul balconcino ogni famiglia, con qualche semplice stuoia o frasca, si costruisce una casetta dove per una settimana si reca a pregare e a mangiare certi cibi, per non dimenticarsi dei quarant’anni di cammino nel deserto, quando Israele, prima di vivere dei frutti della terra promessa, veniva sostentato gratuitamente tutti i giorni dalla mano provvida di Dio. Successivamente ecco lo Yom-Kippur, il giorno solennissimo dell’espiazione, liturgicamente parlando più importante, di digiuno totale. Poi la festa di Chanukkah, che celebra la rinnovazione del tempio. Poi ancora Purim, una parola che vuol dire «sorti», il carnevale ebraico, quando si festeggia il cambio delle sorti con cui gli ebrei, destinati a sterminio, furono salvati per coraggiosa intercessione di Ester presso il re Assuero. E infine la grande festa di Pesach, della Pasqua di liberazione del popolo dalla schiavitù di Egitto, che è solennissima come da noi, cui segue la festa della Pentecoste, della Simchat-Torah, cioè della «gioia-per-il-dono-della-Legge».
Va detto che ognuna di queste diverse feste è vissuta in famiglia con speciale intensità. Ognuna ha le sue preghiere proprie, che la mamma fa recitare a tutta la famiglia, a tutti i bambini. Per ognuna ci sono giochi, canti e colori propri. E quindi i bambini imparano così, celebrando nella vita, udendo raccontare la storia del popolo e di questo Dio misericordioso, vicino, fedele, presente, attraverso l’esperienza quotidiana.
Tornando a noi, certamente sono molto importanti il catechismo e la catechesi, e come vorrei che quest’ultima fosse promossa e attuata in maniera vigorosa! Ma dobbiamo anche ritornare a scommettere sulla trasmissione in famiglia. E anche qui, appunto, non pretendendo dai genitori di trasformarsi in piccoli teologi che insegnano delle formule a memoria — questo lo potranno quanti sono in grado di farlo — ma soprattutto perché i genitori facciano pregare i figli e celebrino con loro le feste liturgiche nel tempo e modo dovuto. Abbiamo moltissime splendide occasioni: l’Avvento, il Natale, la Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste, il mese di maggio, le feste della Madonna, le feste dei Santi, le feste del santo Patrono.
Se ogni famiglia, in qualche maniera saprà dare anche solo un segno per ognuna di queste feste — non solo nella preghiera, ma anche nel cibo, nei piccoli regali, anche in qualche ornamento esteriore —, allora ecco che il bambino avrà appreso senza bisogno di speciali artifizi di memoria, perché questa gli si fisserà indelebilmente nelle cose, nell'esperienza vissuta e quindi memorabile, consentendogli di entrare in modo graduale, simpatico, gioioso nell’atmosfera, nel mondo della fede. Ed è così che Paolo poteva appunto far conto sulla fede di Timoteo, e dirgli: «La fede che tu hai ricevuto dalla tua mamma e dalla tua nonna, e che ora è anche in te» (2 Timoteo 1, 5).
Questa grazia dunque chiediamo: che le nostre famiglie — anche quelle magari un po’ più lontane — sappiano insegnare così la catechesi. È facile, perlomeno non così difficile, far pregare i bambini, incominciando appunto con qualche preghiera legata soprattutto alle feste, alle ricorrenze principali. E così, a poco a poco quel pensiero di Dio oggi tanto lontano dal nostro mondo occidentale, talora oltre tutto presentato così astratto, diventerà di nuovo concreto e vitale; e allora ci sarà quella gioia sentita di chi vive la fede profonda in Dio, in Gesù; di chi vive la gioia della Risurrezione del Signore, l’attesa del suo ritorno, la pienezza della grazia di Dio sparsa sull’umanità intera.
di Carlo Maria Martini