· Città del Vaticano ·

«Murder Most Foul» di Bob Dylan

Il coraggio di cantare la desolazione

Bob Dylan
31 marzo 2020

La notte di giovedì 27 marzo è apparsa sulla rete  Murder Most Foul,  la prima canzone inedita di Bob Dylan dai tempi di Tempest l’ultimo album di brani originali uscito nel 2012. È arrivata all’improvviso, senza dare spiegazioni e cogliendo tutti di sorpresa. 

«Fu un giorno nero a Dallas, novembre ’63, / giorno d’infamia per l’eternità / il presidente Kennedy aveva il vento in poppa, / un bel giorno per vivere, un bel giorno per morire». La voce del vecchio cantautore, che a maggio compirà 79 anni, scandisce ogni parola del testo come se fosse l’ultima, sembra arrivare da un luogo lontano, fuori dal tempo e al di là della memoria, distante milioni di chilometri e di anni, anzi più esattamente, «a 36 ore dal giorno del Giudizio».

Dylan torna a cantare per raccontare una storia e la Storia, in questo caso quella dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, che definisce come «il delitto più efferato» capace di lacerare l’anima di una nazione intera morta proprio lì, a «Dealey Plaza a sinistra devi svoltare. / Vado all’incrocio, farò l’autostop / fede, speranza e carità, è lì che sono morte».

Il brano, della durata record di quasi diciassette minuti, ha il tono di un lamento funebre e suona come una nota stonata tra i tanti messaggi di solidarietà e d’incoraggiamento trasmessi in questi giorni sul web da parte di numerosi esponenti della musica.

Eppure l’intento del cantante premio Nobel è ancora una volta quello di non trattare l’episodio come un fatto di cronaca, di non fermarsi alla superficie dei fatti ma di andare all’essenza delle cose attraverso il racconto. Canzone fluviale, ipnotica, in cui la voce di Dylan appare quella di un vecchio cantore attorno al quale si raduna un popolo (in ossequio alla natura profonda della musica folk).

Per certi versi si tratta di una canzone unica, diversa da tutte le altre (centinaia? migliaia?) composte da Dylan, eppure è anche una summa, un concentrato della sua arte visionaria. Forse c’è un brano che può essere accostato a questa Murder most foul ed è Desolation Row, del 1965. In quell’anno, all’apice del successo, Dylan concludeva con queste parole una delle sue canzoni più lunghe, belle e misteriose, un meraviglioso affresco di personaggi storici, letterari, teatrali e cinematografici, trasfigurati in una grande sfilata carnevalesca: «Tutta questa gente di cui parli, la conosco, sono un po’ dei casi persi / ho dovuto riarrangiare i loro visi e dare a tutti loro un altro nome / Al momento non leggo molto bene, non mi mandare nessun’altra lettera / no, a meno che non me la mandi dal Vicolo della Deso lazione».

In entrambe le canzoni (e praticamente in tutte quelle che si trovano in mezzo, in questi 55 anni) Dylan ha dato vita a un mito, perché egli ha sempre avuto il bisogno di creare miti, di andare oltre il crònos, e avvicinarsi al cuore nascosto delle cose: «Un uomo che indossa una maschera è molto più probabile che ti dica la verità» afferma nel documentario Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan story diretto da Martin Scorsese. Ed è probabile che sia la stessa ricerca di questo mito a fargli dire di essere nato lontano da casa e di vedere la propria esistenza come una sorta di Odissea, un ritorno. 

Dylan ha sempre saputo che «da qualche parte nell’universo c’è un posto che potrai chiamare casa» (così cantava nel 1978) e ora sembra averlo trovato; forse coincide con il Vicolo della Desolazione. Ed è da lì che ci manda la sua lettera, lunga diciassette minuti che, come Desolation Row, è a metà tra un film di Fellini e un quadro di Bosch e per tutta la seconda parte si rivela una lunga galoppata tra le canzoni (ci sono un po' tutti, da Elvis ai Beatles, dai grandi del jazz ai Queen) in cui convivono senso dell’identità, consolazione, speranza. Alla ferita mortale inferta quel giorno a Dallas, Dylan risponde con l’arte del racconto, consapevole che è proprio il raccontare la base da cui ripartire per ricostruire tessuti lacerati. Ecco perché nella seconda parte del brano si rivolge al “mitico” disk-jokey Wolfman Jack, che i cinephiles ricordano nel film American Graffiti, chiedendogli di suonare una lunghissima serie di altri brani musicali (e alla fine anche la stessa Murder most foul): le canzoni costruiscono un tessuto, un patrimonio condiviso, la memoria di un popolo, che per Dylan sono la strada per il riscatto e la salvezza.

di Maurizio Rampa