· Città del Vaticano ·

26 ottobre 2019

La virtù del resistere

I filosofi antichi esortavano ad agire con temperanza intesa come il giusto punto di mezzo tra due eccessi: intemperanza da un lato e insensibilità dall’altro. L’oracolo delfico μηδέν άγαν (nessun eccesso) e il principio dell’aurea mediocritas di oraziana memoria entrarono nella definizione cristiana della virtù cardinale della temperanza molto spesso ritratta nell’immagine di donna che mescola acqua calda e fredda.

 

La temperanza designa ancora la capacità di soddisfare con moderazione i propri istinti e desideri e la si associa ancora all’equilibrio e all’autocontrollo. Ma più che in passato è trascurata o messa in discussione. Questo perché gli stili di vita che ci vengono proposti, o indirettamente imposti, sono essi stessi privi spesso di equilibrio e di moderazione. Capita perciò di essere sollecitati — persino fortemente attratti — dagli eccessi e di considerare la temperanza come un vestito fuori moda. Ma quali le conseguenze del mancato autocontrollo, del mancato rispetto della misura nell’uso dei nostri beni, del nostro corpo, del nostro pianeta? Dipendenze, abusi, delitti e perversioni sessuali, danni ecologici, corruzione amministrativa e politica, arroganza e supponenza, piccole e grandi vendette stanno sotto gli occhi di tutti. Vale oggi come ieri, dunque, il richiamo a esercitare temperanza e sobrietà. Ma giova anche ricordare che la temperanza, come le altre virtù, si perfeziona nel momento in cui entra in una dinamica spirituale profonda. Se, infatti, temperare significa disporre bene qualcosa per il suo uso — sì, proprio come si tempera la matita per poterla usare bene — diventa inevitabile interrogarsi sul fine ultimo dell’esistenza. E così ci è dato scoprire che quel fine ultimo non è il raggiungimento del giusto punto di mezzo, né l’ascetica crocifissione della carne fine a se stessa né la conformità a regole precostituite. È piuttosto la gioiosa risposta di ognuno a una chiamata, avendo come centro, come unico punto fermo, l’Amore, e non tanto il giusto mezzo. Da qui l’invito a lasciare che la “giusta misura” (métron) venga essa stessa “temprata” dall’Amore e si trasformi in una danza armonica, luminosa, dove nulla esiste più di rigido, di freddo, di difensivo, di calcolato, di unilaterale. Chissà se un grande poeta intendesse proprio questo quando scrisse: «Se non fosse per il punto, il punto fermo, non ci sarebbe la danza, e c’è solo la danza» (T.S.Eliot).

Francesca Bugliani Knox

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