
(Avvertenza: questo articolo contiene racconti di stupro e assassinio. Non intende causare nuovi traumi alle vittime di abusi sessuali, bensì assicurare loro che la Bibbia riconosce il loro dolore, pretende giustizia e osserva che le risposte violente non funzionano.)
Non tutte le donne sono eroine; non tutte le storie hanno un lieto fine. La Bibbia ci mostra gli orrori di cui noi esseri umani siamo capaci. Ci mostra che il peccato non è solo qualcosa che compiono loro, ossia persone di altri gruppi etnici, religioni o idee politiche; è una cosa che facciamo noi.
La Bibbia descrive padri e mariti, re e comunità, che abusano delle donne. Non lo fa per insegnare che le donne sono una proprietà o per legittimare l’abuso.
In primo luogo, i racconti dello stupro di Dina (Genesi 34), della concubina del levita (Giudici 19-20) e di Tamar (2 Samuele 13), che per riferirsi alla violenza sessuale usano tutti la parola ebraica anah, riconoscono gli orrori dell’abuso sessuale, rifiutando al tempo stesso di ricorrere a risposte facili, poiché la violenza retributiva genera ancora più violenza. In secondo luogo, questi racconti dimostrano che l’abuso ha un impatto anche sulla famiglia della vittima, sull’autore della violenza e sulla sua famiglia. Poiché l’abuso sessuale non è una questione che riguarda solo l’individuo, nel processo di guarigione devono essere coinvolte anche le famiglie e le comunità. Quando insegno queste storie, le vittime vengono da me in lacrime e mi dicono che non sapevano che la Bibbia riconosce il loro dolore. Quando i sacerdoti predicano su questi testi, potrebbero invitare le vittime a cercare guarigione e pienezza invece di nascondersi per la vergogna e la disperazione.
Quando Dina, figlia di Giacobbe e di Lia, si reca in visita dalle donne di Sichem, viene stuprata dal principe locale (Genesi 34). E qui vediamo subito la vulnerabilità degli immigrati e il potere dei leader. Il verso successivo dice: «Egli rimase legato a Dina, figlia di Giacobbe; amò la fanciulla e le rivolse parole di conforto. Poi disse a […] suo padre: “Prendimi in moglie questa ragazza”». I casi di violenza domestica indicano che amore e violenza non si escludono a vicenda. Ci sono uomini che picchiano le proprie mogli e poi, vedendo i lividi e le fratture, si pentono e professano il loro amore. E ci sono donne che credono a queste dichiarazioni (e pensando che forse sono state loro a provocare il marito), continuano il matrimonio solo per essere nuovamente picchiate.
Il padre del principe, intravvedendo opportunità economiche, propone che israeliti e sichemiti si sposino tra loro. Ma i fratelli di Dina, inorriditi per come è stata trattata la sorella, convincono i sichemiti con l’inganno a circoncidersi per poter sposare le donne israelite. Tre giorni dopo, con gli uomini sichemiti ancora sofferenti, i fratelli di Dina vanno a salvare la ragazza, uccidono gli uomini e catturano le donne (e i bambini) sichemiti. Queste donne potrebbero benissimo diventare le partner sessuali di coloro che hanno ucciso i loro padri, mariti, fratelli e figli. Giacobbe condanna i propri figli per questa violenza, e loro rispondono: «Si tratta forse la nostra sorella come una prostituta?» (Genesi 34, 31). Questo è uno dei pochi testi biblici che termina con una domanda. La risposta è chiaramente “no”, ma altra distruzione e altri stupri sono evidentemente sbagliati. A causa dell’azione dei figli, Giacobbe è costretto a spostarsi e, durante il viaggio, la seconda moglie Rachele muore di parto.
Dina, il cui nome deriva dalla parola ebraica per “giudizio”, non parla mai. Ma la sua storia invita le vittime di abusi a esprimere il proprio giudizio.
In Giudici 19, gli uomini della città beniaminita di Gabaa vogliono abusare dell’ospite di un vecchio, ovvero un levita che, insieme alla sua concubina, gli ha chiesto ospitalità. Il padrone di casa dice: «Ecco mia figlia, che è vergine, e la sua concubina: […] violentatele e fate loro quello che vi pare, ma non commettete contro quell'uomo una simile infamia» (Giudici 19, 24; cfr. Genesi 19, la storia di Sodoma).
Quando gli uomini rifiutano l’offerta, il levita butta la concubina fuori dalla porta. La concubina viene stuprata da tutti gli uomini. Al mattino il levita la trova, silenziosa, con le mani sulla soglia della porta. La carica – non importa se morta oppure no – sul suo asino e la riporta a casa e la taglia in dodici pezzi, che manda alle altre tribù israelite come chiamata alla battaglia. Le altre tribù decimano la tribù di Beniamino, uccidendo anche tutte le donne. Poiché “le donne beniaminite sono state distrutte” (Giudici 21, 16) e gli altri israeliti hanno giurato che non daranno “le loro figlie in moglie a Beniamino” ( Giudici 21, 21), le tribù uccidono tutti gli abitanti di Iabes di Galaad, salvo quattrocento giovani vergini (Giudici 21, 10-12), che danno ai beniaminiti. Avendo bisogno di altre donne, i beniaminiti rapiscono delle vergini da Silo (Giudici 21, 19-21). Lo stupro e la morte della concubina porta ad altri stupri e ad altra morte e altri stupri ancora.
Il libro dei Giudici termina con il ritornello: «In quel tempo non c'era un re in Israele; ognuno faceva quel che gli pareva meglio» (Giudici 21, 25). Ma una monarchia non è garanzia di giustizia.
In 2 Samuele 13, Amnon, figlio di Davide, stupra la sua sorellastra Tamar. Ma, diversamente dal principe che ama Dina, «Amnon concepì verso di lei un odio grandissimo» e le ordinò: «Alzati, vattene!» (2 Samuele 13, 16). Così «Tamar desolata rimase in casa di Assalonne, suo fratello» (2 Samuele 13, 20).
Davide «non volle urtare il figlio Amnon, perché aveva per lui molto affetto; era infatti il suo primogenito» (2 Samuele 13, 21), si rifiutò, proprio come Giacobbe, di reagire allo stupro della figlia. Assalonne uccide il fratellastro Amnon e poi monta una guerra civile contro Davide. Lo stupro porta all’assassinio, alla guerra e ad altri morti e, quando Assalonne ha rapporti con le concubine di Davide sul tetto del palazzo, ad altri stupri ancora (2 Samuele 16, 22).
Donne che vivono relazioni violente si sentono dire da preti benintenzionati che, poiché Gesù vieta il divorzio (Marco 10, 2-12), devono rimanere incatenate ai mariti violenti. Non viene detto loro che Gesù permette il divorzio in quei casi che il greco dell’Antico Testamento definisce porneia, che possono includere le violenze domestiche (Matteo 5, 32).
Alle mogli viene detto di stare “sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati (1 Pietro 3, 1). Pietro si rivolge a donne cristiane sposate con uomini pagani e riconosce che le proteste delle mogli possono mettere in pericolo la Chiesa. Oggi, a mettere in pericolo la Chiesa è il silenzio delle donne vittime di violenza, fatto che suggerisce che la Chiesa perdoni la violenza domestica.
Alle mogli viene detto che, poiché Paolo insegna che «come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto» (Efesini 5, 24), devono sottostare agli abusi mentali e fisici. Non viene detto loro che Paolo insiste sul fatto che nel matrimonio si è chiamati alla pace, non alla violenza (1 Corinzi 7, 15). Non viene detto loro che Paolo dice ai mariti: «amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei […] Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo […]. Quindi anche voi [uomini], ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso» (Efesini 5, 28-33). Se il marito rifiuta questo dovere e fa violenza alla moglie, la Chiesa dovrebbe intervenire. Gesù insegna: «Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano» (Matteo 18, 15-17).
La Bibbia esige che le vittime ricevano sostegno, ci ricorda che gli autori delle violenze sono anche nostri familiari, riconosce che gli abusi avvengono in tutte le famiglie e dimostra che alla violenza non si risponde con la violenza. Le sue storie di dolore potrebbero essere fonte di guarigione se raccontate.
di Amy-Jill Levine