
Quando penso alla speranza, e capita spesso, la prima cosa che mi viene in mente è l’idea di Hannah Arendt della “natalità”, il fatto stesso che esseri umani nuovi, bambine e bambini, continuino a nascere muove la nostra condizione verso la sorpresa e l’imprevisto, è una continua irruzione della novità, che fa sì che il mondo così com’è sempre stato non debba affatto essere. Spesso siamo così spaventati o così feriti, che ci dondoliamo nel cinismo, nell’abbattimento, nella mancanza di energie, tutto pur di non rischiare di essere sorpresi, di vedere l’imprevisto che batte alla porta. Perché sperare si porta dietro un grande peso e molta incertezza. Non è quel vagheggiare onirico, quella preghiera distorta (però così normale): che il male non capiti a me, ma è il suo contrario: se speri, ti muovi.
A qualcuno di noi può essere successo quello che raccontano con disegni e parole Olga Tokarczuk e Joanna Concejo in un albo illustrato di Topipittori, è la storia di un uomo «che lavorava molto sodo e molto in fretta, e si era lasciato ormai da un pezzo la propria anima alle spalle». Ci dice Tokarczuk che senza l’anima non viveva neanche male, correva su e giù, lavorava, mangiava, partecipava persino ai tornei di tennis, ma a volte il mondo gli sembrava molto piatto. Quest’uomo che si era scordato del suo nome e dopo qualche ricerca si era reso conto di chiamarsi Jan, quando è riuscito a farsi raggiungere dalla sua anima, ha alzato la testa e si è reso conto che le piante crescevano e che era sorprendente vederle crescere (e questo è raccontato da Concejo, con le immagini). Quell’uomo, Jan, si era rimesso in grado di capire cos’è la speranza.
Capita quando c’è da bere e da mangiare e si va troppo veloce, di lasciare la propria anima indietro e non avere più ragione di sperare, non capire più neanche cosa vuol dire, ma quando c’è guerra e manca il cibo o il tetto, la speranza diventa un motore molto concreto, Chimamanda Ngozi Adichie, nel libro Metà di un sole giallo (Einaudi) racconta della guerra dopo la proclamazione d’indipendenza della Repubblica del Biafra dalla Nigeria nel 1967, e racconta benissimo di come la ricerca dell’acqua e del cibo sia mossa dalla speranza di sfamare e dissetare le persone alle quali si vuole bene, non sempre la speranza viene ripagata dal successo, ma certo se la speranza non muovesse i passi, le persone in difficoltà lascerebbero morire se stessi e i loro cari. C’è un nesso profondissimo fra l’amore concreto e la speranza, l’amore porta a sperare, la speranza ad agire. Come l’utopia, la speranza indica un orizzonte, ma è un orizzonte più modesto e più carnale.
Quando ancora dentro la guerra o appena fuori, si prova a chiedere alla speranza di darci un orizzonte collettivo, di farci vedere una via d’uscita, c’è un ostacolo, forse il più grande: l’odio che non ha fatto che crescere e costringe gli odiati a ricambiare. Marilynne Robinson in Leggere Genesi (Marietti1820) si sofferma a trattare di Caino che ha ucciso suo fratello e di quello che è successo dopo. Del fatto che Dio non l’abbia punito, ma l’abbia segnato di modo da preservarlo dall’essere a sua volta assassinato. Difficile che chi ascolta la storia per la prima volta, non pensi alla giustizia negata ad Abele, al fatto che Caino debba pagare per la sua colpa. In alternativa cerchiamo di convincerci che il segno di Caino è una condanna, un marchio della colpa. Ma né Caino paga la sua colpa come ci aspetteremmo (al contrario, se la porta dietro), né le generazioni che vengono da lui pagano per la loro colpa. La vendetta su Caino è sospesa attraverso quel segno. Una giustizia nuova soppianta in quel momento la giustizia a cui siamo abituati, sconcertante e prospettica, sospende la vendetta: è una giustizia speranzosa.
di Carola Susani