
A vent’anni della Nota della Congregazione per la dottrina della fede
A vent’anni della Nota della Congregazione per la dottrina della fede sul valore dei «Decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do Sac. Antonio Rosmini Serbati» (1 luglio 2001), che ne ha reso possibile nel 2007 la beatificazione, si è svolto nei giorni 29-30 ottobre e 5-6 novembre tra Firenze, Reggio Emilia e Modena un Convegno internazionale di studio con l’obiettivo di mettere sempre più in luce il gran disegno costituito dall’opera e dal pensiero di Antonio Rosmini, dalla filosofia alla teologia, dalla pedagogia al pensiero politico e giuridico, dalla dimensione più ampiamente culturale alla spiritualità, e di ripercorrere l’itinerario esistenziale-intellettuale di testimonianza e di riflessione grazie al quale il beato Rosmini ha saputo vivere, argomentare e sviluppare l’unità di scienza e santità nella realtà dei vari saperi teorico-pratici di cui si è occupato. «Il beato Antonio Rosmini, sin dall’800, invitava a una decisa riforma nel campo dell’educazione cristiana, ristabilendo i quattro pilastri su cui essa saldamente poggiava nei primi secoli dell’era cristiana: “L’unicità di scienza, la comunicazione di santità, la consuetudine di vita, la scambievolezza di amore”». (Papa Francesco «Veritatis gaudium», n. 4).
di ROBERTO CETERA
La fede risana la ragione che rende la fede umana
Il riscatto del pensiero di Rosmini dal dubbio di eterodossia reimmette, nel circuito culturale del sapere umano, uno dei più grandi pensatori dell’Ottocento cattolico italiano. Grande è il vantaggio per la cultura, la teologia cattolica e la missione evangelizzatrice della Chiesa. Rosmini è l’unico autore dell’Ottocento che abbia tentato un “dialogo critico” con la cultura moderna, assumendone le esigenze di fondo, senza abdicare alle verità della tradizione. La finalità di tutte le sue ricerche — è chiarito in Degli studi dell’Autore — è stata quella di mostrare la valenza pubblica della fede, la sua capacità di redenzione di tutti gli aspetti della vita dell’uomo, saldando Vangelo e cultura, vissuto e santità, dottrina ed esistenza. Ha fatto bene allora Papa Francesco a citarlo nel Proemio di Veritatis gaudium, in cui si esprime l’urgenza di superare la frammentazione dei saperi e rigettare il carattere “intellettualistico” della ricerca scientifica della verità, in particolare nella scienza teologica. Rosmini stabilisce un nesso interiore profondo tra scienza, santità ed esperienza di Dio: «Un’altra scienza si potrà sapere senza la santità della vita, quelle delle cose soprannaturali no».
Nelle Cinque Piaghe della santa romana Chiesa, affrontando la questione della piaga della mano destra (Dell’Insufficiente istruzione del clero) denunciava il carattere “esangue”, “astratto” della teologia del suo tempo, con manuali «senza spirito, senza principj, senza eloquenza e senza metodo». Perché? Perché avevano abbandonato «tutto ciò che spettava al cuore e alle altre facoltà umane, curandosi solo della mente». Una “ragione anaffettiva” — quella ancora oggi invocata, in ambito scientifico e in alcune filosofie, per fondare l’oggettività della ricerca, della propria conoscenza della realtà — è invece ritenuta da Rosmini (in quanto inumana) inadeguata per il sapere teologico, per la filosofia e gli altri saperi. Il problema teologico di allora (anche del nostro tempo?) era la «questione del soprannaturale», ridotto al nulla dal naturalismo del razionalismo di matrice protestante, contestato in Il razionalismo che tenta di insinuarsi nelle scuole teologiche. Per Rosmini, il soprannaturale è l’azione di Dio nell’essenza dell’anima umana, per opera della grazia, percepita dalla fede. La ragione del Rosmini credente esercita la propria speculazione (anche filosofica e scientifica) animata interiormente dalla contemplazione del volto di Dio cristiano, “percepito” grazie alla fede sacramentale, per la quale il cristiano è deiforme, cristiforme, triniforme.
Sbagliarono, dunque, quanti hanno preteso estrapolare dal pensiero complessivo del Rosmini una filosofia eccellente, perché “autonoma” rispetto alla sua spiritualità, alla mistica, al suo vissuto di carità. Il mito del Kant italiano si è potuto diffondere — con B. Spaventa e G. Gentile — entro un’interpretazione falsante della posizione autentica che percorre un itinerario inverso di pensiero: programmaticamente vuole pensare credendo, filosofare con la fede e nella fede, senza alcuna epochè della fede, come pretende M. Heidegger, che ha consacrato il pregiudizio moderno (di stampo illuminista) della separazione tra fede e ragione, tra credere e pensare: «La fede crede e non sa , mentre la ragione sa e non deve credere». Il misconoscimento della fede come episteme (per cui il credente “sa” autenticamente ciò in cui crede) non dovrebbe essere recepito in ambito cattolico, come invece improvvidamente avviene in tante odierne frange della riflessione filosofica e teologica. La lezione del teologo Rosmini resta attuale e promettente. Intraprende la scrittura dell’Antropologia soprannaturale e capisce che gli uomini del suo tempo non erano preparati a recepirla, perché “difettosi” di quelle infrastrutture concettuali filosofiche, indispensabili per comprendere le verità cristiane su Dio, sull’uomo, sui sacramenti, sulla storia dell’amore di Dio, sull’Eschaton. Il teologo Rosmini, allora, in funzione della sua teologia, pensa di dover rifondare la filosofia, dall’inizio (andamento regressivo, con il Nuovo saggio sull’origine dell’idee, giungendo alla scoperta dell’Idea dell’essere innata costitutiva della mente umana come suo oggetto infinito, indeterminato, origine dell’intelligibilità della realtà) fino al suo compimento (andamento progressivo, con la Teosofia, che comprende l’Ontologia, riflessione sull’ente in quanto ente; la Teologia razionale, per l’Ente infinito; la Cosmologia per l’ente finito).
Autentica e vera filosofia quella del Rosmini, ma che dimora in una condizione apparentemente strana, cioè «nel viscere della cristiana teologia». Expressis verbis, Il Roveretano ammette di aver fatto il “mestiere della levatrice”, cioè maieuticamente estratto dalle “viscere teologiche” il suo Sistema della Verità, di cui la teologia può servirsi perché — se vero — è l’unico coerente con la verità cristiana, quasi “teoria dell’Evangelio”. E non si tratta soltanto di “atmosfera” o di “emozione religiosa” che consiglia l’indagine filosofica di andare da una parte piuttosto che dall’altra, nella ricerca della verità. È invece l’ingiunzione (dogmatica) di andare in quella precisa direzione per scoprire la verità. Così — scrive Rosmini in Degli studi dell’autore, parte consistente della sua Introduzione alla filosofia — proprio la definizione tridentina del peccato originale gli indicò la soluzione innatista al problema dell’origine delle idee. Allo stesso modo, nella Teosofia, è la rivelazione della Trinità il misterioso fondamento delle dottrine (le tre forme dell’essere, reale, ideale e morale, e il loro sintesismo) che portano a definitiva soluzione l’enigma riguardante la conciliazione dell’Uno e del Molteplice, mai sciolto nei secoli.
Il mistero trinitario rivelato entra in filosofia: «Questo sublime mistero dunque è il profondo e immobile fondamento su cui si possa innalzare l’edificio non solo della dottrina soprannaturale, ma anche della Teosofia razionale [...] se ne avrà questa conseguenza importante, che alla divina rivelazione la stessa Filosofia dovrà la sua perfezione, l’inconcussa sua base, e il suo inarrivabile fastigio».
Davvero imbarazzante, a ben pensarci. Si potrebbe gridare al fideismo. E di fatto A. Manzoni, grande narratore e poeta, ha una sola “operetta filosofica” — Dell’invenzione — nella quale affronta questo problema teorico, prendendolo dalle “corna”, per usare una “metafora viva” di aristotelica memoria: le corna del dilemma, infatti, sono visibili solo se non si capisce il sintesismo rosminiano (un “essere-in” che lascia essere l’altro, portando a perfezione la sua alterità) e l’apologetica rosminiana: «La fede redime la ragione, ridonandola a sé stessa».
Nella sua Teodicea scrive: «In più luoghi de’ santi libri havvi descritta la fede siccome generatrice d'intelligenza, siccome quella, che ravvigorisce l’umana ragione, e la scorge alla verità; siccome una maestra, che le dispiega innanzi, e le consegna i segreti della sapienza», sicché «Il ragionamento si può anche dir figliuolo della fede», «guardia continua dell’umana ragione».
Ed è questo che il cardinale J. Ratzinger — nella Conferenza tenuta durante l’incontro tra la Congregazione per la dottrina della fede e i presidenti delle Commissioni per la dottrina della fede delle Conferenze episcopali dell’America Latina (Guadalajara, maggio 1996), pubblicata in «L’Osservatore Romano» del 27 ottobre 1996 — ha chiarito: «Una delle funzioni della fede, e non tra le più irrilevanti, è quella di offrire un risanamento alla ragione come ragione, di non usarle violenza, di non rimanerle estranea, ma di ricondurla nuovamente a sé stessa».
È un refrain continuo dell’illuminante magistero teologico di Benedetto xvi : «La ragione non si risana senza la fede, ma la fede senza ragione non diventa umana». Rosmini ha pensato con un logos appassionato dalla fede.
di Antonio Staglianò
Vescovo di Noto
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