15 agosto 1425 – Oblazione di Francesca Romana e altre nove compagne di Tor de’ Specchi

Nel segno dell’Assunta

 Nel segno  dell’Assunta  QUO-187
13 agosto 2025

di Alessandra Bartolomei Romagnoli

Quella di mezz’agosto era una giornata speciale per l’Urbe: vi si celebrava infatti la più importante festa religiosa del popolo romano con una grandiosa processione che attraversava gran parte della città e a cui partecipavano le più alte autorità ecclesiastiche, le magistrature civili, i rappresentanti degli ordini religiosi, delle confraternite e dei sodalizi. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto l’immagine del Cristo Salvatore lasciava il Sancta Sanctorum lateranense e veniva portata in corteo sino alla basilica liberiana. Il tragitto prevedeva alcune soste, una delle quali era nella chiesa di Santa Maria Nova al Foro romano, dove l’icona di San Giovanni incontrava l’antica immagine della Vergine che vi si venerava da tempo immemorabile. Dopo questa stazione l’acheropita lateranense si ricongiungeva con la Salus Populi Romani di Santa Maria la Maggiore per restare con lei sino alla mattina del 15 agosto. Così, mentre si celebrava la simbolica riunione della madre e del figlio, sembrava che potessero finalmente ritrovarsi e siglare la pace anche le diverse anime della città — quella curiale e quella municipale — spesso in lotta tra loro. D’altra parte, il culto di Maria è sempre stato il segno distintivo della pietas romana, una devozione che ha attraversato i secoli, dalle antiche basiliche paleocristiane ai cammini delle salvifiche icone bizantine, dalle associazioni laicali agli insediamenti degli ordini religiosi che hanno posto sotto l’egida mariana il proprio apostolato nell’Urbe. Maria, Madre di Dio e Regina coeli, è stata la vera Madre di Roma, patrona e punto di riferimento unitario della città.

E proprio il 15 agosto del 1425, esattamente sei secoli fa, nasceva la famiglia religiosa delle Oblate di Tor de’ Specchi, che con il tempo si sarebbe imposta come l’istituto di vita consacrata femminile più rappresentativo del panorama cittadino. Fu infatti nel giorno dell’Assunta che Francesca Bussa dei Ponziani (la futura santa Francesca Romana) si offrì come oblata alla Vergine Maria nella basilica di Santa Maria Nova, officiata dai monaci benedettini olivetani. Con lei, a emettere la stessa promessa di consacrazione, era una decina di donne, il primo nucleo della nuova fondazione.

Per otto anni le Oblate continuarono ad abitare presso le proprie famiglie, fino a quando non comprarono una casetta nel rione Campitelli, tra il Campidoglio e il Teatro di Marcello, e lì iniziarono la loro vita in comune. Anche questa nuova tappa della nascente congregazione venne posta sotto il segno della festa mariana dell’Annunziata, il 25 marzo del 1433.

In apparenza, l’esperienza di Tor de’ Specchi non era eccezionale: a quel tempo l’Urbe brulicava di “case sante”, comunità spontanee di bizzoche, terziarie, mantellate che conducevano una vita austera, povera e casta, fatta di lavoro manuale, di preghiera, di condivisione dell’altrui sofferenza. La differenza di questo tipo di vita rispetto al monachesimo femminile tradizionale era radicale, per la semplicità dell’organizzazione comunitaria, per la libertà da vincoli gerarchici di subordinazione, per l’assenza di formalismo. Queste comunità aperte erano sul piano organizzativo delle realtà con caratteristiche del tutto nuove, autogestite, ricche di una autonomia e flessibilità sconosciute alle antiche fondazioni monastiche e profondamente radicate nel mondo cittadino.

Il gruppo primitivo delle Oblate affondava le sue radici in questo complesso e variegato tessuto di devozionalità femminile, in una rete di solidarietà in cui motivi religiosi e spirituali si intrecciavano a istanze concrete di mutuo e reciproco sostegno, una soluzione funzionale anche rispetto ai problemi reali di sussistenza e protezione di donne fragili e sole, sovente vedove, all’interno di una società che poggiava su equilibri assai precari.

La specificità di Tor de’ Specchi rispetto ad altre aggregazioni femminili coeve a carattere spontaneo — e che si sarebbero presto estinte — fu però nella capacità di Francesca e delle prime compagne di porre le premesse della tenuta e della continuità di una casa che si sarebbe inserita in profondità nel contesto romano. Non fu, soprattutto agli inizi, un cammino facile, e la stessa fondatrice dovette affrontare ostacoli e opposizioni al suo progetto di una comunità femminile non claustrale, che non era in linea con le disposizioni del supremo vertice ecclesiastico: alla fine del Duecento, con la costituzione Periculoso (1298) Papa Bonifacio VIII aveva infatti decretato che la clausura era legge perpetua e universale della Chiesa, cui dovevano soggiacere tutte le comunità femminili. E lo stesso Eugenio IV, nel rispondere positivamente alla supplica delle Oblate che chiedevano il riconoscimento del loro progetto di vita religiosa, affermò che tale concessione aveva il carattere di una deroga; si trattava insomma di un privilegio eccezionale del Papa, che però non modificava la disciplina stabilita dal suo predecessore. Tale statuto particolare delle suore di Tor de’ Specchi si comprende alla luce dell’altissima considerazione di cui la loro fondatrice godeva in città. Anche un Pontefice rigoroso e austero come Eugenio IV non poteva negare il suo appoggio a questa donna straordinaria. Moglie e madre esemplare, padrona di un ricco palazzo in Trastevere, la pia signora dei Ponziani aveva messo a disposizione i beni della sua famiglia e tutta sé stessa per andare incontro alle altrui sofferenze. Era da tutti conosciuta come la santa dei vicoli e dei rioni, dei malati e dei poveri, che in un periodo tra i più oscuri e violenti della storia della città ne aveva curato le piaghe fisiche e spirituali. Ma oltre che una donna della carità e dell’assistenza, Francesca era anche una grande mistica, che aveva un dialogo intenso con Dio, e anzi, proprio da questa profonda intimità con il divino ella aveva attinto la forza e l’audacia storica di costruire la sua comunità e darle una regola, una forma di vita che la Vergine stessa le aveva ispirato mentre si trovava in stato d’estasi.

Quella di Tor de’ Specchi era per i tempi una formula di vita religiosa avanzatissima, perché proponeva anche alle donne una via mixta, o terza via, in altri termini il superamento dell’antica contrapposizione tra azione e contemplazione, tra Marta e Maria. Dalla matrice penitenziale erano ormai maturate le condizioni di una vera rivoluzione nella concezione stessa della vita consacrata, che implicava non più la fuga dal secolo consumata nella solitudine orante della cella, ma una via di santificazione attraverso le opere, una milizia attiva e laboriosa che aspirava a una presenza effettiva nella storia e nella società.

Le Oblate erano le piccole eroine della vita comune, che percorrevano le vie e le piazze della città per lavorare e mantenersi, recare sollievo e assistenza ai poveri e malati. Emergeva insomma un diverso ideal-typus di donna religiosa, i cui codici identitari e di comportamento rinviavano al valore della medietas, a una misura di discretio assai lontana dall’estremismo ascetico coltivato da tante eroine medievali. Per il proprio perfezionamento personale a una brava suora si richiedevano la modestia, la sobrietà, un atteggiamento di distacco dai beni del mondo, obbedienza alla superiora, solidarietà pronta con le consorelle. Equilibrio di vita ravvisabile nella giornata delle suore, scandita dalla preghiera e dal lavoro manuale, ma anche da momenti assistenziali ed educativi che avevano una parte importante nel carisma di fondazioni sensibili all’apostolato fra le giovani. Da casa si può uscire: basta tenere gli occhi bassi.

Tor de’ Specchi rappresentava in fondo il punto di arrivo della maturazione spirituale di una donna che era riuscita a trovare una sintesi tra i doveri del suo stato, di moglie e di madre, e il suo cuore di monaca. Lasciare tutto per andare nel deserto, superare i limiti e l’opacità dei doveri quotidiani: era stata questa, in fondo, la tentazione segreta che aveva attraversato la sua esistenza. Ma proprio accettando questa separazione, la sua condizione di un esilio lontano dal paradiso interiore, Francesca era arrivata alla santità. E così ella aveva insegnato alle Oblate che ogni vera perfezione non risiede in un eroismo extraumano, ma nella umiltà e obbedienza al volere divino, nell’accettare con serenità il luogo che il Signore ci ha assegnato. Ma vi è un altro punto che mette in luce “il genio” della legislatrice e fu il modo in cui ella cercò di risolvere il delicato problema dell’assistenza spirituale delle suore. Questa intuizione è forse l’aspetto più originale del suo progetto anche rispetto ad altri istituti “aperti” che fiorirono nel suo tempo.

Per il suo ordine Francesca pensò a tre procuratori, che dovevano operare in maniera unita e concorde al servizio della comunità: un monaco, un frate francescano, un sacerdote. Si trattava di una proposta articolata, dove il necessario patrocinio spirituale dei monaci veniva garantito, ma senza imporre loro un impegno troppo gravoso e tra l’altro incompatibile con le loro tradizioni e consuetudini. Ma il progetto era valido, oltre che sul piano organizzativo, per il suo significato religioso. Gli “avvocati” di Tor de’ Specchi erano figure che rappresentavano idealmente anime diverse della tradizione medievale, ma che avevano anche plasmato nel profondo l’identità religiosa e spirituale della fondatrice. Dai monaci olivetani Francesca aveva imparato l’amore della cella e del silenzio, la bellezza della liturgia e della lectio divina, dal francescanesimo la centralità del mistero dell’Incarnazione, l’urgenza della carità e dell’impegno attivo nel mondo. Ma, in fondo, era stato da un sacerdote della sua chiesa prediletta di Santa Maria in Trastevere che ella si era sempre confessata e comunicata, e a questo prete semplice, Giovanni Mattiotti, ella aveva rivelato i segreti della sua anima. Questa complessità di temi e di linguaggi dimostra come Francesca si muovesse nel suo ambiente con una consapevolezza spirituale plurale, che le permise di superare le divisioni tra gli ordini e di mettersi in dialogo con le componenti ecclesiali della Roma del suo tempo. Basta ricordare che del suo circolo spirituale fecero parte, oltre agli olivetani e ai francescani, anche i domenicani. Non si trattava di un fatto scontato in un’epoca post-scismatica, quella dei primi decenni del Quattrocento, drammaticamente segnata dagli antagonismi intra-cristiani, dalla conflittualità tra gli ordini religiosi e i diversi partiti dell’osservanza. Il modello di governo della congregazione, di tipo collegiale, documentava una esigenza storica profonda, quella della concordia e della unità, che è una parola chiave della regola di Tor de’ Specchi.

Fu questo il testamento spirituale che Francesca lasciò alla comunità delle Oblate, che continuò il suo cammino rimanendo fedele al carisma originario, anche grazie a una protezione speciale della Sede apostolica. Nel corso dei secoli il monastero di Tor de’ Specchi sarebbe divenuto un polo fondamentale di fede, di cultura e di spiritualità del cattolicesimo romano.

Chi visita oggi questa casa rimane ammirato dagli affreschi che nella cappella più antica narrano i miracoli e le visioni della beata: le Oblate affidarono il racconto delle origini ad Antoniazzo Romano, pittore sensibile e raffinato di Madonne. Né meno emozionanti sono i quadri monocromi in cui un anonimo artista della seconda metà del Quattrocento rievoca le lotte di Francesca con il demonio. Ma nel tempo della visita è possibile ripercorrere la storia di Roma dalla fine del medioevo sino ai nostri giorni: la vecchia torre con le sue luci, il chiostro e il piccolo forno del Quattrocento, i grandi e solenni ambienti barocchi, le tante testimonianze lasciate dai personaggi che hanno frequentato e amato questa casa, autentico crocevia di santità.

Leggi anche:

«Mai più Iefte»