Dal 31 gennaio al 5 febbraio Papa Francesco nella Repubblica Democratica del Congo e in Sud Sudan
Un pellegrinaggio che tocca due Paesi molto diversi ma ricchi di straordinarie potenzialità

Per annunciare il Vangelo
della riconciliazione

 Per annunciare il Vangelo della riconciliazione  QUO-022
27 gennaio 2023

Papa Francesco torna pellegrino in Africa per la terza volta. Infatti dal 31 gennaio al 5 febbraio visiterà due capitali della macroregione subsahariana: Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) e Juba (Sud Sudan). Si tratta di un viaggio importante sul quale occorre riflettere partendo dal presupposto che mai come  oggi  il continente africano ha bisogno d’interlocutori capaci di rendere intelligibili al mondo i propri drammi unitamente alla ferma istanza del riscatto.

È evidente che stiamo parlando di due Paesi con straordinarie potenzialità ma anche con storie molto diverse tra loro. Infatti, il territorio che  oggi  costituisce la  Repubblica Democratica del Congo  (Rdc) è la memoria vivente dei disastri perpetrati a partire dalla fine del xix secolo, quando il  re Leopoldo ii del Belgio  avviò la colonizzazione del bacino idrografico del fiume Congo, dove sorgeva l’omonimo regno. Da rilevare che il monarca belga agì come privato cittadino e non come sovrano, avvalendosi, dagli anni Settanta del 1800, delle indiscusse competenze dell’esploratore gallese Henry Stanley, naturalizzato americano.

Grazie a una scaltra campagna di pubbliche relazioni, ispirate alla promozione dei saperi geografici e scientifici, alla lotta nei confronti dello schiavismo di matrice araba, oltre alla diffusione della civiltà e del progresso, la complicità tra Leopoldo e Stanley fu scaltra e altamente invasiva. Sta di fatto che  nel corso della Conferenza di Berlino del 1884-85, le potenze coloniali europee riconobbero collegialmente le rivendicazioni di Leopoldo sulla regione sancendo la nascita del Libero Stato del Congo, prima entità statuale che comprendeva gran parte del territorio della Rdc al quale venne annesso successivamente il Congo orientale (Katanga). In pochi anni era riuscito ad impadronirsi di un immenso territorio (76 volte più grande del Belgio) ricoperto di foreste nel cuore del continente africano.

Le vessazioni perpetrate dal regime di Leopoldo furono orribili e trovarono risonanza grazie anche alla magistrale penna di Joseph Conrad nel celebre romanzo Cuore di tenebra in cui  si parla di un mercante d’avorio, tale  Kurz, che si era fatto passare per un semidio, governando in preda alla follia.  Basti pensare che sulla palizzata antistante alla sua capanna aveva conficcato le teste di alcuni congolesi uccisi. Eppure di fronte a simili nefandezze che insanguinavano la foresta pluviale e di cui anch’egli era artefice, alla fine anche lui non poté che mormorare: «L’orrore! L’orrore!».

 Un sentimento, questo, che si è procrastinato nel tempo, con declinazioni diverse, nelle varie vicende che hanno segnato prima il passaggio da Libero Stato del Congo  a  Congo belga. Per non parlare dei tragici fatti che segnarono i primi anni dell’indipendenza, avvenuta nel 1960. Basti pensare alla rivolta di Moise Tshombe che dichiarò indipendente la regione del Katanga o all’uccisione del primo ministro Patrice Lumumba.

Le ingerenze internazionali sul Congo, ricco di commodity a dismisura, nel corso della Guerra fredda e anche dopo, hanno reso questo Paese vittima di un’instabilità cronicizzata che ormai si procrastina nel tempo e che riguarda soprattutto le province nord-orientali del Nord Kivu, Sud Kivu, Ituri e Tanganyka, ma anche altre aree, come il Kasai (al centro del Paese) e il Katanga (nel sudest). Vale a dire tutte le regioni più ricche di risorse naturali, con il risultato che l’ordinarietà è ormai costituita da conflitti localizzati, violenze indiscriminate contro civili e sfollamenti. Non v’è dubbio che il messaggio di Papa Francesco sarà ispirato al Vangelo della pace e della riconciliazione.

Diverso è il contesto sudsudanese. Si tratta infatti dell’ultimo Stato nato a seguito della consultazione referendaria che sancì nel  gennaio  del 2011 l’indipendenza delle regioni meridionali sudanesi dal Nord di tradizione islamica. Storicamente, i territori del Sud Sudan e del Nord Sudan  erano entrambi parte del Regno d’Egitto, sotto la dinastia di Muhammad Ali, in seguito regolati come un condominio anglo-egiziano fino all’indipendenza sudanese del 1956.  In questo caso, l’errore che venne commesso fu quello di costringere le popolazioni nilotiche di tradizione animista e cristiana a convivere e sottostare alle élite arabe più emancipate insediate a settentrione.

Occorre comunque ricordare che nel 1947, i Britannici, per via negoziale, cercarono di separare il Sudan del Sud dal Sudan e di unirlo all’Uganda. Tuttavia, questo tentativo fu contrastato dalla  Conferenza di Juba che legittimò l’unificazione del Nord e del Sud Sudan. Motivo per cui nell’agosto del 1955 esplose il primo conflitto tra il Nord e il Sud Sudan (Anya Nya i), prim’ancora che fosse proclamata l’indipendenza —  che sancì definitivamente la creazione di un solo Stato — dalla Corona britannica.

Dopo un’altalena di golpe e crisi istituzionali, in un Paese dove la vita politica si è sempre confusa con l’azione delle confraternite islamiche, d’accordo o più spesso in lotta tra loro, nel marzo del 1972 venne firmato ad Addis Abeba un accordo tra il governo dell’allora presidente Jafaar Nimeiri e i ribelli. La pace però durò soltanto un decennio e rappresentò una vera illusione perché la questione meridionale rimase oggetto di accese controversie.

Scoppiò così nel 1983 la Anya Nya ii,  capitanata in un primo momento da Cherubino Kwanyin Bol a cui succedette poco dopo il colonnello John Garang. Fu quest’ultimo ad organizzare politicamente e militarmente l’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla). Finalmente, nel 2005 cessarono le ostilità con la firma di un accordo di pace siglato a Nairobi che nel 2011 portò all’indipendenza del Sud Sudan.

Purtroppo nel  dicembre 2013  scoppiò una nuova guerra all’interno del Sud Sudan, tra il presidente Salva Kiir Mayardit e il suo antagonista, Riaek Machar. Un conflitto su base etnica, ma anche legato alla gestione del potere, che lì significa controllo del petrolio.

Da allora sono stati raggiunti dei risultati significativi, con un governo di unità nazionale, grazie anche al ruolo di pacificatore assunto da Papa Francesco, dall’arcivescovo di Canterbury e primate anglicano Justin Welby e dal moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia Iain Greenshields. A questo proposito occorre ricordare che le Chiese cristiane in Sud Sudan hanno promosso la pace e la riconciliazione anche attraverso il South Sudan Council of Churches. L’attuale missione del consiglio copre l’educazione civica, la pace e la riconciliazione, oltre a programmi di sviluppo. Un modo davvero profetico per testimoniare il Vangelo della pace all’insegna dell’ecumenismo.

di Giulio Albanese


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