L’incontro senza armi di due culture “altre” nell’America Meridionale

Nelle Riduzioni del Paraguay dove l’evangelizzazione
non fu colonialismo

 Nelle Riduzioni del Paraguay dove l’evangelizzazione non fu colonialismo     QUO-203
06 settembre 2022

Il viaggio penitenziale di Francesco in Canada ha mostrato ancora una volta la capacità di riflettere criticamente sugli errori commessi dalla Chiesa, o da uomini di Chiesa inadeguati ai ruoli ricoperti, in un passato che, nel caso in questione, giunge quasi a lambire il presente. Dobbiamo augurarci che l’intera struttura ecclesiastica sappia far propri l’onestà e lo straordinario coraggio di cui hanno dato prova l’attuale Pontefice, e prima di lui, con riferimento ad analoghe o diverse vicende, i predecessori Benedetto xvi e Giovanni Paolo ii .

Ma, se è giusto e doveroso riconoscere le proprie colpe, ammettere gli errori commessi, dobbiamo guardarci dal rischio di cadere in una indiscriminata colpevolizzazione della storia trascorsa. Una storia che, accanto a episodi riprovevoli, da condannare, è altrettanto ricca di vicende gloriose di cui la Chiesa può andare fiera. Riflettendo sul passato, di cui il nostro presente è figlio, credo ci si debba guardare da due eccessi: da un lato l’indiscriminata agiografia esaltatoria che tutto giustifica, di cui spesso la storiografia cattolica è stata vittima, dall’altro la denigrazione generica e sommaria che tutto condanna, sull’onda della cancel culture, che si sta purtroppo affermando.

I missionari che a partire dalla metà del Cinquecento attraversarono gli oceani giungendo fino agli estremi confini del mondo, improvvisamente globalizzato dalle scoperte geografiche, furono i primi europei che entrarono concretamente in contatto con culture sconosciute, radicalmente “altre”, totalmente “diverse”. Culture forti, evolute e raffinate in Estremo Oriente, culture più deboli e indifese nelle due Americhe. Il loro scopo era portare il cristianesimo a questi popoli nuovi. Ma come portarlo? Imponendolo o proponendolo? Azzerando l’esistente o valorizzandolo innestandovi la novità cristiana? La questione risolta in forme brutali e inaccettabili in Canada viene insomma da molto lontano e ha conosciuto nel passato risposte di ben altro tenore.

In Estremo Oriente il problema neppure si pose ed emerse subito la necessità dell’adattamento, oggi diremmo dell’inculturazione. Cioè fu giocoforza diluire, addolcire, conciliare. Venire a patti con le culture locali, al punto che non pochi si chiesero se quei religiosi — valga per tutti il caso del missionario più conosciuto dalla storiografia internazionale, Matteo Ricci — si stessero convertendo anziché convertire. Ne nacque quella controversia sui “riti” che travagliò per un secolo e mezzo la teologia cattolica e segnò fino al Novecento il destino della missione in Cina, e non solo in Cina. Si tratta di uno dei capitoli più appassionanti, è bene ricordarlo, della storia moderna.

Invece in America meridionale, dove l’interlocutore era infinitamente più debole e vulnerabile — gli indiani delle sterminate foreste amazzoniche e delle fitte boscaglie rioplatensi — l’esperimento tentato dai gesuiti fra i Guaraní del Paraguay — le cosiddette “Riduzioni” — rappresentò il più ardito tentativo di penetrazione morbida di una cultura forte dentro una cultura fragile.

In un continente nel quale tanto il colonialismo spagnolo quanto quello portoghese avevano schiacciato in tutti i modi possibili le popolazioni locali, i gesuiti capovolsero il rapporto e dimostrarono che era possibile realizzare una convivenza dell’europeo con l’indiano capace di renderlo cristiano senza usargli violenza, senza farne uno schiavo, senza cambiarne la lingua, guadagnandone lentamente il consenso e facendone un alleato. Esattamente l’opposto dell’incredibile vicenda distruttiva accaduta nelle scuole residenziali canadesi.

Come ho cercato di dimostrare in un libro apparso l’anno scorso (Le Riduzioni gesuite del Paraguay. Missione, politica, conflitti, editrice Morcelliana), fu probabilmente il più geniale tentativo di cooperazione allo sviluppo, come diremmo oggi, mai tentato. Non a caso la cultura internazionale, inclusa la cinematografia, ne ha fatto uno dei soggetti preferiti.

Si può obiettare che le fonti di cui disponiamo sulle Riduzioni sono quasi tutte di parte, provengono cioè non dai Guaraní ma dai gesuiti, che certamente sono caduti in qualche esagerazione autocelebrativa. Ma è altrettanto vero che in un secolo e mezzo — tanto durò l’esperimento — non ci furono mai ribellioni, rivolte o rifiuti da parte degli indios, tolti isolati casi di defezioni. Così come gli studi dei demografi hanno dimostrato che queste missioni — che fiorirono in un territorio attualmente diviso tra Paraguay, Argentina e Brasile, oltre che nella regione della Chiquitania, ora appartenente alla Bolivia — furono l’unico luogo del Sud America dove l’indiano conobbe una crescita demografica, mentre in tutto il resto del continente andò incontro ad un declino numerico catastrofico.

Oggi le Riduzioni paraguaiane sono ridotte a imponenti rovine, mentre continuano a vivere quelle della Bolivia, che non hanno mai smesso di esistere e sono tuttora abitate dai discendenti dei Chiquitos di tre secoli fa. Ma le testimonianze concordi di chi le visitò poco dopo l’uscita di scena dei gesuiti, la cui espulsione dal continente americano nel 1768 segnò la loro fine, sono una prova ulteriore e non sospetta che qui i missionari hanno scritto una pagina meritevole di ammirazione e non di biasimo.

Bastino due citazioni. La prima è dell’antropologo italiano Paolo Mantegazza (1831-1919), un darwiniano non certo sospetto di simpatie clericali: «Se i reggitori dei popoli sapessero usare tanta sottigliezza di ingegno, tanta profondità di vedute, tanto conoscimento pratico del cuore umano, tanta tenacia di propositi e flessibilità di accorgimenti, quanta ne adoperarono i Gesuiti, potrebbero affrettare di tanto la marcia delle generazioni sulla strada dell’incivilimento». La seconda di Alcide d’Orbigny (1802-1857), ben noto naturalista francese, che visitò tutte le Riduzioni della Bolivia all’inizio dell’Ottocento, quando la memoria dei gesuiti era ancora vivissima e le missioni non avevano subito alcuna alterazione. Scrive: «Ad ogni nuova missione la mia sorpresa cresceva, pensando che questi monumenti costruiti sotto la direzione dei gesuiti erano opera di uomini appena usciti dallo stato selvaggio. Non mi stancavo di ammirare gli incredibili successi che questi religiosi ottennero in così poco tempo. Soprattutto mi impressionarono i manufatti, tanto mobili quanto tessuti e metalli. Non avevo visto nulla di meglio nelle maggiori città boliviane. E tutto era opera dei gesuiti».

Senza nulla togliere all’orrore che proviamo per quanto è avvenuto fra i nativi canadesi, oltre tutto in anni a noi vicinissimi, non è meno giusto ricordare i tanti momenti gloriosi della storia missionaria. Una storia di cui si parlerà a Roma, nel prossimo mese di novembre, nel corso di un importante convegno storico sulla Congregazione De propaganda fide, l’organismo curiale al quale dal 1622 — cade appunto quest’anno il quarto centenario della sua fondazione — fanno capo le missioni cattoliche nel mondo. Siamo certi che l’appuntamento offrirà lo spunto per un bilancio onesto e obiettivo di questi quattro secoli di storia, durante i quali il cristianesimo si è trasformato da religione europea in religione universale.

di Gianpaolo Romanato

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