Fede e letteratura
A colloquio con Ferruccio Parazzoli

Cronaca
di una eclisse annunciata

 Cronaca  di una eclisse annunciata  QUO-143
24 giugno 2022

«La tragedia è il grido di un mondo sacro. Ma il nostro tempo non conosce più questa dimensione, tutto viene ridotto a cronaca» spiega Ferruccio Parazzoli, commentando La lettura moderna sospesa fra Dio e il nulla, l’articolo dello scrittore spagnolo Juan Manuel de Prada, pubblicato sulla rivista «Vita e Pensiero», da cui prendono le mosse queste pagine.

Nel mondo contemporaneo per uno scrittore che esprime una visione cristiana della vita non è facile trovare spazio, tantomeno successo, sostiene de Prada, perché prevalgono surrogati della letteratura che negano e rendono impossibile il dramma: testi edulcorati e banali, sentimentali, talmente frivoli (o, all’opposto, talmente cinici) da non sfiorare nemmeno la complessità e il mistero dell’esistenza umana.

Parazzoli — romanziere e saggista, già direttore della collana degli Oscar Mondadori, premio Campiello nel 1977 con Il giro del mondo per citare solo uno dei fiori all’occhiello del suo cursus honorum letterario ed editoriale — in parte è dello stesso avviso dello scrittore spagnolo, in parte no.

«Se la tragedia è il grido di un mondo sacro, la cronaca invece — il termine è forte, ma il contesto lo giustifica appieno — è la defecazione di un mondo profano». Un mondo in cui tutto è ridotto a notizia effimera, da cestinare in fretta dopo l’uso, e ogni storia individuale viene ridotta a detrito, a rumore, «a schifo, a orrore defecato sul giornale» ripete Parazzoli, per far capire che sì, sta proprio ricorrendo a una metafora scatologica per descrivere il flusso incessante dell’informazione.

«Ho letto lo sfogo di de Prada, che non trovo nè sorprendente nè sconcertante. È un dibattito presente da tempo, l’eclisse del Dio unico. La questione non è tanto l’ateismo nella letteratura, quanto il fatto che Dio semplicemente non c’è nel nostro mondo, non se ne parla, o se ne può parlare solo come fantascienza». È troppo poco dire “dramma”, continua Parazzoli, ormai è una parola consumata che non significa quasi più niente; è normale dire, ad esempio, che un film è drammatico quando descrive semplicemente i fatti che succedono nel corso di una vita.

«La letteratura moderna si occupa di cronache individuali, sociali, presenti, l’uomo guarda a se stesso e ai suoi problemi concreti. Non c’è più la metafisica, il dialogo e la contraddizione con il divino, la tragedia nel senso in cui la intende Jaspers». Ci sono i fatti, la vita quotidiana, la linea orizzontale del tempo, che l’arte attraversa con la sua linea verticale, che sale e sprofonda, come in Dante, dal paradiso all’inferno e viceversa. «Non è del tutto vero che dopo l’Illuminismo questa dimensione sia sparita — chiosa Parazzoli — se pensiamo ad autori come Dostoevskij o Tolstoj siamo davanti al grido, alla tragedia dell’uomo di fronte al suo ultimo destino. Ma anche a Mauriac, Bernanos, Greene, all’uomo in rivolta di Albert Camus. Citare solo Baudelaire, come fa de Prada, mi sembra un po’ esagerato». Per tornare a sentire tutta la vertigine dell’abisso di una domanda rivolta direttamente a Dio meglio rileggere Dostoevskij, consiglia Parazzoli, «ma chi ha ancora voglia di leggersi le cento pagine in cui si parla di uno starets?», o i deliri e le confessioni di Ippolit, malato (personaggio de L’Idiota) che si domanda se valga la pena suicidarsi o vivere ancora, «pagine in cui la voce narrante è in diretto rapporto con l’Altro, con la “a” maiuscola».

Non censurare il male, non distogliere lo sguardo dallo sconcertante mistero della “sventura” — per usare un termine caro a Simone Weil — che si abbatte su un’esistenza umana, è forse il segreto di un riscatto possibile, di un rinascimento a portata di mano, nell’arte e nella letteratura.

«Il grande saggio colombiano Nicolás Gómez Dávila — nota de Prada nel suo articolo — scrisse che ogni filosofia che eluda il problema del male è una favola per bambini ingenui. Per secoli, la letteratura cattolica è stata piena di Grazia perché si è rifiutata di eludere il male e ha saputo addentrarsi nel territorio del nemico e far luce sul conflitto che si svolge nelle penombre del cuore umano. Solo questa letteratura “drammatica” potrà affrontare la letteratura nichilista che espelle Dio dal suo seno. Diceva Barbey d’Aurevilly nel prologo alle Diaboliche che “i veri pittori possono dipingere tutto e la loro pittura è sempre molto morale quando è tragica e quando suscita l’orrore delle cose che ritrae. Di immorale non ci sono che gli Impassibili e gli Schernitori”».

di Silvia Guidi


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