Sull’isola dei migranti dove si combatte il virus dell’indifferenza/2

Diario da Lampedusa

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17 maggio 2021

La bambina è accucciata in un angolo della nave tutta sola. I capelli arruffati e il visetto sporco di polvere, cerca di non farsi notare e di nascondersi in mezzo agli altri sessanta passeggeri della motovedetta della Guardia costiera, trasbordati da un motopeschereccio che li aveva salvati. Il medico sa di dover essere rapido. Una bambina sola è facile preda dei trafficanti di uomini, per i quali può valere molti soldi. Così si avvicina e, una volta accertato che con lei non ci sono i genitori, la porta con sé al poliambulatorio. Scopre subito che la bimba ha la “malattia del gommone”, un nome che lui stesso aveva inventato. Si tratta di una grave ustione provocata dalla benzina fuoriuscita dai serbatoi delle imbarcazioni che si mischia con l’acqua salata creando una miscela corrosiva che divora la pelle e la carne. Il medico scopre anche che la piccola ha subito abusi sessuali e sopportato sofferenze incredibili, come gli racconta lei stessa con l’aiuto di un mediatore culturale. Anila ha 11 anni, viene dalla Nigeria e vuole trovare la sua mamma che è partita quando lei aveva tre anni. Aveva vissuto con la nonna ma poi quando questa era morta, aveva deciso di mettersi in viaggio. “Dov’è la tua mamma?”, le chiede il dottore. “In Europa”. “In Europa dove?”. Silenzio. “Sai che cos’è l’Europa, Anila?”. “No”.

9 maggio, ore 16
L’Orrore


«Sono entrato in una stiva buia come la notte e calda come l’inferno, calandomi da un boccaporto senza riuscire a vedere cosa ci fosse sotto e ho poggiato i piedi su un pavimento di cadaveri ammucchiati; ho visto le paratie sporche di sangue, incise dalle unghie di uomini nudi che cercavano di scappare dalla loro trappola mortale; ho tagliato dita a bambini annegati per il riconoscimento genetico; ho reciso cordoni ombelicali separando madri morte da figli vivi e figli morti da madri senza più vita. Ho visto l’Orrore, l’ho toccato, ci ho camminato sopra, ho sentito il suo respiro e ascoltato la sua voce. Me lo sono portato a casa ogni sera. È stato mio compagno per quasi trenta anni e lo odio con tutto me stesso ma, talora, ogni volta che ho visto uno spiraglio di luce in mezzo a quelle tenebre — quando ho aiutato una giovane donna a partorire o quando ho salvato un paziente in ipotermia — l’ho anche amato», scrive Pietro Bartolo nel libro Le stelle di Lampedusa.

Da lontano, sul Molo Favarolo, si intravede una massa indistinta di persone avvolte nelle coperte termiche gialle che luccicano al vento. Le imbarcazioni continuano ad arrivare e con esse i ricordi, le immagini e le sensazioni, che si convertono in un flusso incessante di parole. «In una delle ultime barche arrivate c’erano quasi tutte donne con bambini piccoli», racconta Bartolo, per quasi trenta anni medico di Lampedusa e ora europarlamentare del Gruppo S&D, con la carica di vicepresidente della commissione Libertà civili e Affari interni. «Una delle ragazze mi ha raccontato che era stata violentata in Libia, anche in gruppo, più volte. “Ma sa — mi diceva — a me non importava. Ero uscita dal mio corpo, non sentivo nulla. L’unico mio pensiero era quello di arrivare e niente mi poteva fermare. Dovevo pensare alla mia famiglia. E ora sono qua. Ce l’ho fatta”. Queste persone non hanno paura di niente, sfidano tutto e tutti, hanno una motivazione enorme. È per loro che mi batto, per tutte quelle che ho incontrato e per tutte quelle che arriveranno».

Da quando è diventato famoso, grazie al film documentario di Gianfranco Rosi, Fuocoammare che, nel 2016, ha vinto l’Orso d’oro al festival di Berlino e ha ottenuto una candidatura agli Oscar come Miglior documentario, Bartolo gira instancabile l’Italia e l’Europa per fare testimonianza. Scuole, associazioni, università, organizzazioni, va ovunque lo chiamino. Con sé porta una chiavetta usb in cui ha raccolto le foto e i filmati più significativi della sua esperienza. Immagini spesso crude, difficili da sopportare ma che lui ritiene necessarie per far capire, per far immaginare, anche solo per un momento, il dramma delle persone che affrontano il viaggio della loro vita e spesso della loro morte. In ogni occasione parla inarrestabile, senza pause, come se condividere una storia possa alleggerire il peso dei ricordi, il peso di tutto il dolore del mondo.

Anila ricorda solo qualche cifra del numero telefonico della mamma che la nonna le aveva fatto imparare a memoria. Dopo numerosi tentativi, il medico riesce a comunicare con quella che, scoprirà dopo, è Monique, l’assistente sociale che segue la mamma di Anila, Carla. Intanto la bambina viene accolta in una casa famiglia di Palermo gestita da suore. E quando un giorno, finalmente, il medico riesce a mettere in contatto telefonico figlia e madre piangono tutti. Monique, le suore, e Carla e Anila che, dopo otto anni di silenzio, stanno finalmente parlando. Ma è solo l’inizio di un’altra odissea, più paradossale, meno violenta ma non meno dolorosa. Anila e Carla si dovranno scontrare con il buco nero della burocrazia.

Ore 17.30
Il figlio venuto dal mare


Tutto è cominciato nei giorni dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, che costò la vita a 368 persone, un evento scolpito nella memoria degli isolani. «Mi trovavo a via Roma e sugli scalini di un marciapiede ho notato un ragazzo con il viso triste e gli occhi rossi. Mi sono avvicinato e gli ho chiesto come stava», racconta Lillo Maggiore, impiegato in un istituto scolastico. «Mi ha detto di essere uno degli scampati al naufragio. La nostra amicizia è nata in quel momento, anzi, molto di più». Alex, 22 anni, era scappato dall’Eritrea e dagli obblighi militari. Era passato per la Libia da dove si è imbarcato per l’Italia. Poi la tragedia e l’incontro con Lillo, nella cui casa passerà i successivi tre mesi. Di giorno, perché la notte doveva far ritorno all’hotspot, dove erano stati trasferiti tutti i sopravvissuti. A lui, nei giorni seguenti, si aggiunge Teame, 21 anni, anche lui eritreo, conosciuto durante il viaggio. «Gli abbiamo messo a disposizione un computer e le chiavi di casa, così potevano entrare e uscire come volevano». La famiglia si era allargata ma Lillo, la moglie, che lavora nella polizia municipale, e le due figlie sentivano il desiderio di fare qualcosa di più. «Volevamo prendere in affido un minore non accompagnato, uno dei tanti che arrivano sull’isola e che vengono ospitati nel centro di accoglienza, in condizioni inadatte a bambini privi di tutto». Così, a novembre, cominciano a fare le pratiche necessarie. Ma il tempo passa e non succede niente. «I bambini continuavano ad arrivare e noi eravamo sempre più sconfortati. Andavo di casa in casa a raccogliere giochi, peluche e indumenti da mandare ai piccoli ospiti del centro per cercare di portare un po’ di gioia nelle loro vite senza poter fare altro». Poi, la notizia tanto attesa. La richiesta era stata accettata.

Seydou è arrivato a casa della famiglia Maggiore a gennaio 2014. Alex, nel frattempo trasferito in un centro di accoglienza in Sicilia e da lì scappato, si trovava già in Olanda, mentre Teame, che ora vive in Norvegia, sarebbe partito di lì a poco. Seydou aveva 16 anni e veniva dal Senegal. «Non conosceva una parola di italiano», racconta Lillo. «L’abbiamo subito iscritto a scuola, alla terza media, e dopo sei mesi aveva già imparato la nostra lingua. Poi ha preso il diploma all’istituto alberghiero. Abbiamo saputo più tardi che, quando è partito, aveva lasciato la moglie incinta. Seydou ha conosciuto la sua bambina solo due anni fa, quando è tornato per un paio di mesi nel suo Paese. Il tempo per concepire un altro figlio, questa volta un maschietto». Anche Alex e Teame si sono sposati e hanno procreato così, ora, Lillo e la moglie sono nonni di sette nipoti. Il 3 ottobre di ogni anno, i ragazzi, oggi quasi trentenni e ben sistemati, vengono a Lampedusa in occasione di quella che è diventata la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione e si riuniscono con quella che considerano la loro famiglia.

Seydou lavora in un supermercato dell’isola e sta facendo le pratiche per far venire anche la moglie e i figlioletti. Quando ha compiuto 18 anni, Lillo gli ha detto che ora era libero di andare dove voleva, non era più obbligato a restare con loro. «Se non mi volete vado via ma se mi volete rimango. Voi siete la mia famiglia», ha risposto il ragazzo. «Ma chi ti manda via Seydou, abbiamo lottato tanto per averti. Tu fai parte di noi. Sei il figlio venuto dal mare».

Carla fa la prostituta sulle strade di Marsiglia. È lì che Monique la trova. Non è stato facile entrare in contatto con la donna perché le vittime della potente mafia nigeriana sono minacciate. Su di loro pesano i riti vudu e hanno troppa paura per chiedere aiuto. Conquistata la sua fiducia, Monique viene a sapere la storia di Carla. Una storia fatta di immenso dolore, separazioni drammatiche, sensi di colpa devastanti, umiliazioni inenarrabili. Un inferno.

Ore 18.30
La Porta d’Europa


L’opera architettonica si staglia verso il cielo su un terreno roccioso e brullo a strapiombo sul mare. La Porta d’Europa, realizzata dall’artista Mimmo Paladino, è un monumento celebrativo per tutti i migranti morti e dispersi in mare, inaugurato il 28 giugno 2008. Alto cinque metri e largo tre, è decorato con gli oggetti trovati sulla spiaggia dopo i tanti naufragi che si sono succeduti nel corso degli anni — scarpe, lacci, ciotole — ed è senza uscio. Una porta aperta verso l’Africa. Siamo sull’ultimo lembo della Sicilia, l’inizio o la fine del continente europeo. Il monumento, sottoposto alle intemperie e all’azione corrosiva della salsedine, è in grave stato di sofferenza e l’eurodeputato, che ha lanciato una campagna di raccolta fondi per salvarlo, è venuto per cercare di capire come con tecnici e consulenti.

Bartolo viene spesso qui. Si arrampica sul sentiero polveroso che sale dal vecchio porto e siede sulla sua “poltrona”, un sasso largo e piatto, guardando il mare. «Quello che è successo ai 130 migranti che ad aprile scorso sono stati lasciati morire in mare è inaccettabile. Le persone devono essere salvate. Abbiamo il dovere di accoglierle e di integrarle e non di creare muri o fare accordi con Paesi che sappiamo bene come li trattano. Vengono emarginati, torturati, schiavizzati, scartati, come dice il Papa, e dobbiamo fare in modo che questo cambi». Ed è per cambiare lo stato delle cose che Bartolo è diventato attore, scrittore e, nel 2019, europarlamentare, dove è relatore ombra del dossier Ramm, che riguarda il nuovo patto sulle migrazioni. «Ma chi ci pensava? La mia missione è quella del medico mica quella del politico. Ma è necessario operare in ogni modo per far capire che la migrazione è un fenomeno strutturale non un’emergenza. Occorre affrontare seriamente la questione e prendere atto che queste persone ci possono aiutare. Perché siamo in grandissima difficoltà dal punto di vista sociale, economico, demografico. Nel 2020 c’è stato un calo delle nascite del 30% rispetto a dieci anni fa. Se continuiamo così l’Italia è destinata a scomparire e l’Europa si trasformerà in una grande Rsa. Chi sosterrà le spese del welfare, chi pagherà le pensioni, chi produrrà l’economia reale fatta di manodopera, di gente che lavora, che va nelle vigne, nei campi, che munge le mucche, che costruisce le case? Se proprio non vogliamo vederla dal punto di vista umano, consideriamo la cosa in maniera egoistica. I migranti sono un’opportunità. Integrandoli, mettendoli in regola, pagherebbero le tasse e ripopolerebbero il Paese. Ne abbiamo bisogno. Noi più di loro».

“Devi avere pazienza”, le dicono. Anila non capisce. A 11 anni ha attraversato da sola il deserto e il mare, è sopravvissuta alle carceri libiche e ai naufragi per ritrovare la sua mamma e ora che ci è riuscita deve aspettare ancora? Perché? Per un po’ cerca di adattarsi al nuovo ambiente ma poi cominciano le crisi. Aggressive, violente. Ha bisogno della mamma. Ma le pratiche di ricongiungimento procedono lentamente. La bambina tenta più volte il suicidio. Il medico, che sta gestendo le complicate operazioni burocratiche e diplomatiche con la Francia e che ha coinvolto chiunque per cercare di dipanare l’intricata vicenda, si sente sempre più impotente. Non c’è tempo da perdere. Ogni giorno può essere fatale.

Ore 19.30
«Raccogliamoli»


«In quel periodo non lavoravo e così andavo a pesca tutti i giorni con il mio amico Onder». Costantino Baratta, muratore, ha un ricordo ancora vivido di quel fatidico 3 ottobre. «Quel giorno, verso le 7 di mattina, siamo partiti e dopo cinque minuti di navigazione abbiamo visto una moltitudine di persone in acqua che annaspavano e chiedevano aiuto. Uno sguardo con Onder e una sola parola: “Raccogliamoli”. Onder era ai comandi e io ho cominciato a caricare. Il primo era un ragazzo nudo che non riuscivo a prendere perché era coperto di gasolio e mi scivolava. Dopo ne ho presi due per la cintura dei pantaloni e poi altri. In tutto erano undici/dodici. Eravamo strapieni, la barca misura solo cinque metri e correvamo il rischio di capovolgerci. A pochi metri da noi c’era la motovedetta della Guardia costiera, intervenuta per i soccorsi, e abbiamo trasbordato le persone. Poi siamo ripartiti. A un certo punto, abbiamo visto il corpo di una donna. Sembrava morta ma poi lei ha alzato la mano e con un filo di voce ha detto: “Help me, help me!”. L’abbiamo subito presa a bordo. Stava male, tremava. Le ho dato la mia canottiera perché si asciugasse e si riscaldasse un po’. Aveva bisogno di cure mediche e l’abbiamo portata immediatamente alla Capitaneria di porto. Poi, verso le 8.30, siamo tornati a riva. Più tardi siamo andati al poliambulatorio. Volevamo notizie della ragazza. Lei e le altre quattro donne che erano state portate lì avevano ingerito acqua salata e gasolio ma ora stavano bene. Uno dei due ragazzi che avevo sollevato per la cintura dei pantaloni, invece, era stato trasferito all’ospedale di Palermo con l’elisoccorso».

La commemorazione dei defunti si è tenuta nell’hangar dell’aeroporto. Una scena indimenticabile per chi l’ha vissuta. Una distesa infinita di bare. Trecentosessantasette. Una in meno perché tra i morti c’era una mamma che aveva appena partorito e Bartolo non aveva voluto tagliare il cordone ombelicale per lasciarla unita per sempre al figlioletto. «Quando ho visto le piccole bare bianche mi è uscita una lacrima. È molto raro che io pianga ma lì è successo», ricorda Costantino. «Ci sono state scene di disperazione fra i sopravvissuti, urla, pianti, svenimenti. C’era chi aveva perso un fratello, chi il marito, chi un figlio. Tra la folla ho riconosciuto la ragazza che avevamo preso a bordo. Quando mi ha visto, mi ha buttato le braccia al collo urlando “È lui che mi ha salvato, è lui che mi ha salvato!”. Lwam aveva 23 anni ed è eritrea. Nei giorni successivi le è venuta la broncopolmonite ed è stata trasportata all’ospedale, da cui è scappata molto presto. Qualche giorno dopo era già in Svezia, il suo obiettivo. Costantino continua a sentirla, «lei e tutti quelli che sono passati per la mia casa, che in quei mesi di permanenza nell’hotspot, si era trasformata in un internet point. Ora i ragazzi si trovano nel Nord Europa, sono sposati e hanno figli. Noi siamo la loro famiglia italiana. Non perdono occasione per ringraziarci. “Noi siamo rinati — dicono — Abbiamo due compleanni da festeggiare, quello in cui siamo venuti al mondo e quello in cui siamo stati salvati”. Anche Lwam è sempre presente. Quando mio figlio si è sposato lei c’era».

Ci sono voluti molti mesi prima che Anila e Carla si ricongiungessero. Un giorno indimenticabile per tutti, di immensa gioia e di abbracci dimenticati. La piccola Anila ha compiuto un’impresa epica. Con la sua straordinaria determinazione non solo ha ritrovato la sua mamma ma l’ha anche salvata da un tragico destino.

Ore 20.30
Il grido di Lampedusa


Un’idea semplice ma potente. Una croce fatta con il legno delle barche dei migranti. È venuta a Francesco Tuccio, falegname e artista, una moglie e quattro figli. «Vedevo arrivare donne, uomini e bambini e non mi davo pace. Sentivo il dovere di fare qualcosa. Provavo rabbia, volevo più attenzione per loro e per l’isola, completamente abbandonata dalle istituzioni». Così Francesco, un giorno di aprile prima di Pasqua, andò al cimitero delle barche prese due legni e costruì la sua prima croce. Era il 2009. «La portammo in processione. Era il nostro grido per scuotere le coscienze». Il grido di Lampedusa si riverbera su tutto il mondo. Tutti vogliono quelle croci. Francesco riceve ordinativi dall’Australia, dal Sud America, dalla Gran Bretagna. Un esemplare è esposto al British Museum. Con il parroco gli viene l’idea di mandarne una al Papa, insieme a una lettera. E dopo quaranta giorni Papa Francesco decide di fare a Lampedusa il suo primo viaggio apostolico. Era l’8 luglio 2013. «Un sogno che si avverava», dice l’artista che, per l’occasione, costruì l’ambone, l’altare e il pastorale. «Francesco volle anche un calice a cui tenevo molto e che conservavo gelosamente. Gli furono proposti vari esemplari ma lui scelse proprio quello. Potevo dire di no al Papa?».

10 maggio
Ore 9


Il bollettino degli arrivi parla di altri 1.000 migranti sopraggiunti fra ieri e stanotte. Ad ora siamo a 2.400. Tra questi un bimbo di due mesi con la scabbia e una stomatite che gli rendeva difficile alimentarsi. È stato subito trasferito a Palermo insieme alla mamma di 19 anni. Sono state ricoverate anche due donne incinte che non sentivano più i loro bambini muoversi e due uomini gravemente feriti, uno con un taglio alla testa e l’altro con una ferita infetta alla coscia. Tutti e due provenienti dai centri libici. L’hotspot è stracolmo e le navi quarantena hanno altre persone a bordo. I nuovi arrivati, per il momento, rimangono sul molo Favarolo, appiccicati l’uno all’altro. «Era prevedibile. Quando comincia la bella stagione ne partono di più», sospira sconfortato Bartolo. «L’Europa deve porre immediatamente rimedio a questa situazione e fare in modo che queste persone possano arrivare in sicurezza attraverso i corridoi umanitari e i canali regolari. La questione deve essere affrontata con intelligenza, lungimiranza, razionalità, non come abbiamo fatto finora, con il contrasto, i muri, i fili spinati, i rimpatri. Se le cose non cambiano, fra dieci anni ci ritroveremo a dire ancora le stesse cose. È inammissibile!».

Anila e Pietro si sentono quasi tutti i giorni. Ora la ragazzina ha 14 anni ma sembra più grande. Ha lunghe treccine blu e unghie colorate. Nell’ultimo videomessaggio, bellissima e con un sorriso luminoso, saluta il suo amico allegramente. “Io sto bene, mia madre benissimo. Ti voglio bene enormemente. E ti ringrazio”. Bartolo la guarda con tenerezza e per la prima volta sorride. Lo spiraglio di luce in mezzo alle tenebre.

dalla nostra inviata Marina Piccone


(La storia di Anila è raccontata nel libro Le stelle di Lampedusa”,
di Pietro Bartolo [Oscar Mondadori, 2018])


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