Il magistero

 Il magistero  QUO-203
04 settembre 2025

Venerdì 29 agosto

L’attenzione del cuore per promuovere pace e
speranza

Nella solennità del nostro santo Padre, sant’Agostino, sono commosso e profondamente onorato di ricevere la Medaglia di Sant’Agostino dalla Provincia di San Tommaso da Villanova.

Mentre registro questo messaggio sono lontano dal caldo di Roma e sto trascorrendo un po’ di tempo a Castel Gandolfo per pregare, riflettere e riposare un po’.

La chiesa parrocchiale di questa cittadina è dedicata a san Tommaso da Villanova, conosciuto come padre dei poveri, un frate e vescovo agostiniano che ha dedicato la propria vita al servizio dei poveri.

Come agostiniani cerchiamo ogni giorno di essere all’altezza dell’esempio del nostro padre spirituale.

Essere riconosciuto come agostiniano è un onore molto sentito. Devo tanto di ciò che sono allo spirito e agli insegnamenti di sant’Agostino e sono grato a voi per i molti modi in cui le vostre vite mostrano un profondo impegno verso i valori di veritas, unitas, caritas.

Agostino è stato uno dei grandi fondatori del monachesimo, vescovo, teologo, predicatore, scrittore e dottore della Chiesa. Ma questo non è avvenuto dalla sera alla mattina.

La sua vita è stata piena di tentativi ed errori, come le nostre. Tuttavia, attraverso la grazia di Dio, le preghiere di sua madre, Monica e della comunità di brave persone intorno a lui, è riuscito a trovare la via della pace per il suo cuore inquieto.

La vita di sant’Agostino e la sua vocazione a guidare servendo ricordano a tutti che possediamo doti e talenti donati da Dio e che il nostro scopo, la nostra realizzazione e la nostra gioia derivano dal restituirli nell’amorevole servizio a Dio e al prossimo.

È bello essere con voi questa sera, mentre siete riuniti nella storica Philadelphia, sede della chiesa di Sant’Agostino, una delle più antiche comunità di fede degli Stati Uniti.

Siamo sostenuti dall’esempio di frati agostiniani come padre Matthew Carr e padre John Rossiter, il cui spirito missionario li ha spinti, alla fine del Settecento, a portare la buona novella nel servizio degli immigrati irlandesi e tedeschi, in cerca di una vita migliore e di tolleranza religiosa.

Oggi siamo chiamati a portare avanti questa eredità verso tutto il popolo di Dio.

Nel Vangelo Gesù ci ricorda di amare il prossimo, e questo sfida, ora più che mai, a ricordarci di vedere il prossimo con gli occhi di Cristo; che tutti noi siamo creati a immagine e somiglianza di Dio, attraverso l’amicizia, le relazioni, il dialogo e il rispetto reciproco.

Possiamo vedere oltre le nostre differenze e scoprire la nostra vera identità di fratelli e sorelle in Cristo.

Come comunità di credenti, e ispirati dal carisma degli agostiniani, siamo chiamati a essere costruttori di pace nella nostra famiglia e nel nostro ambiente e a riconoscere la presenza di Dio gli uni negli altri.

La pace inizia da ciò che diciamo e facciamo e da come lo diciamo e lo facciamo. Sant’Agostino ci ricorda che prima di parlare dobbiamo ascoltare, e come Chiesa sinodale siamo incoraggiati a impegnarci nuovamente nell’arte di ascoltare attraverso la preghiera, il silenzio, il discernimento e la riflessione.

Abbiamo l’opportunità e la responsabilità di ascoltare lo Spirito; di ascoltarci gli uni gli altri; di ascoltare le voci dei poveri e delle persone ai margini [che] hanno bisogno di essere udite.

Sant’Agostino esorta a prestare attenzione e ad ascoltare il Maestro interiore, la voce che parla da dentro ognuno di noi. È nei nostri cuori che Dio ci parla.

Agostino incoraggiava chi lo ascoltava: «Non limitatevi all’attenzione dell’udito, ma abbiate l’attenzione del cuore».

Il mondo è pieno di rumore e le nostre menti e i nostri cuori possono essere sommersi da diversi tipi di messaggi. Questi possono alimentare la nostra irrequietezza e rubare la nostra gioia.

Come comunità di fede, cercando di costruire una relazione con il Signore, possiamo cercare di filtrare il rumore, le voci divisive nelle nostre menti e nei nostri cuori, e aprirci agli inviti quotidiani a imparare a conoscere meglio Dio e il suo amore.

Quando sentiamo la voce amorevole e rassicurante del Signore, la possiamo condividere con il mondo mentre cerchiamo di diventare una cosa sola in Lui.

Come Agostino, ci riuniamo con i nostri momenti di ansia, di buio e di dubbio; e come Agostino, per grazia di Dio possiamo scoprire che l’amore di Dio guarisce.

Cerchiamo di costruire una comunità in cui questo amore sia visibile.

Che possiamo continuare a rafforzare la nostra missione comune di promuovere la pace, vivere nella speranza e riflettere la luce e l’amore di Dio nel mondo!

È nella nostra unità in Cristo e nella nostra comunione reciproca che la luce crescerà e diventerà più luminosa.

(Videomessaggio alla provincia agostiniana di San Tommaso da Villanova - Stati Uniti d’America)

Dare
testimonianza dell’incontro con Dio

Siete venuti a Roma in questo anno giubilare da diversi Paesi, come pellegrini di speranza. Saluto il cardinale Gérald Cyprien Lacroix, arcivescovo di Québec, il signor José Prado Flores, e la sua famiglia, e tutti voi membri delle Scuole di Evangelizzazione “Sant’Andrea”.

Oggi la Chiesa celebra la memoria liturgica del martirio di san Giovanni Battista. La sua figura può aiutarci a riflettere sulla missione degli evangelizzatori oggi.

Nel prologo del Vangelo di Giovanni si afferma che «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14), e poi si indica che il Battista, gli rende testimonianza (cfr. 1, 15).

Se rileggiamo con attenzione i primi capitoli del quarto Vangelo possiamo scoprire la chiave di ogni scuola di evangelizzazione: rendere testimonianza di ciò che si è contemplato, dell’incontro che si è avuto con il Dio della vita.

Così l’evangelista lo dice anche nella sua prima lettera: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1 Gv 1, 3).

Questa è la missione della Chiesa [e] di ogni cristiano. Questa è la nostra vocazione come battezzati, pertanto dobbiamo trasmettere ciò che a nostra volta abbiamo ricevuto, affinché tutti diveniamo uno in Cristo.

Vi invito in particolare a contemplare le vite dei santi che, come Giovanni Battista, sono stati fedeli seguaci di Gesù, manifestandolo in parole e in opere di bene.

Vi ringrazio per il fecondo lavoro che portate avanti a favore dell’evangelizzazione, attraverso diversi mezzi, e vi incoraggio a continuare a camminare con rinnovata speranza.

(Discorso alle Scuole di evangelizzazione “Sant’Andrea” - Escuelas de Evangelización “San Andrés” )

Domenica 31

La Chiesa
sia palestra
di umiltà

Stare a tavola insieme, specialmente nei giorni di riposo e di festa, è un segno di pace e di comunione, in ogni cultura. Nel Vangelo di questa domenica (Lc 14, 1.7-14) Gesù è invitato a pranzo da uno dei capi dei farisei.

Avere ospiti allarga lo spazio del cuore e farsi ospiti chiede l’umiltà di entrare nel mondo altrui.

Una cultura dell’incontro si nutre di questi gesti che avvicinano.

Incontrarsi non è sempre facile. L’Evangelista nota che i commensali “stavano a osservare” Gesù, e in genere Lui era guardato con un certo sospetto dai più rigorosi interpreti della tradizione.

Ciò nonostante, l’incontro avviene, perché Gesù si fa realmente vicino, non rimane esterno alla situazione.

Egli si fa ospite davvero, con rispetto e autenticità. Rinuncia a quelle buone maniere che sono soltanto formalità per evitare di coinvolgersi reciprocamente.

Così, nel suo stile, con una parabola, descrive ciò che vede e invita chi lo osserva a pensare.

Ha infatti notato che c’è una corsa a prendere i primi posti. Questo succede anche oggi, non in famiglia, ma nelle occasioni in cui conta “farsi notare”; allora lo stare insieme si trasforma in una competizione.

Sederci insieme alla mensa eucaristica, nel giorno del Signore, significa anche per noi lasciare a Gesù la parola.

Egli si fa volentieri nostro ospite e può descriverci come Lui ci vede.

È importante vederci con il suo sguardo: ripensare a come spesso riduciamo la vita a una gara, a come diventiamo scomposti per ottenere qualche riconoscimento, a come ci paragoniamo inutilmente gli uni agli altri.

Fermarci a riflettere, lasciarci scuotere da una Parola che mette in discussione le priorità che ci occupano il cuore: è un’esperienza di libertà.

Gesù ci chiama alla libertà. Nel Vangelo usa la parola “umiltà” per descrivere la forma compiuta della libertà.

L’umiltà, infatti, è la libertà da sé stessi.

Essa nasce quando il Regno di Dio e la sua giustizia hanno veramente preso il nostro interesse e ci possiamo permettere di guardare lontano: non la punta dei nostri piedi, ma lontano!

Chi si esalta, in genere, sembra non avere trovato niente di più interessante di sé stesso, e in fondo è ben poco sicuro di sé.

Ma chi ha compreso di essere tanto prezioso agli occhi di Dio, chi sente profondamente di essere figlio o figlia di Dio, ha cose più grandi di cui esaltarsi e ha una dignità che brilla da sé stessa.

Essa viene in primo piano, sta al primo posto, senza sforzo e senza strategie, quando invece di servirci delle situazioni impariamo a servire.

Chiediamo oggi che la Chiesa sia per tutti una palestra di umiltà, cioè quella casa in cui si è sempre benvenuti, dove i posti non vanno conquistati, dove Gesù può ancora prendere la parola ed educarci alla sua umiltà, alla sua libertà.

Maria di questa casa è la Madre.

(Angelus in piazza San Pietro)

Mercoledì 3

La fragilità umana
è un ponte
verso il cielo

Nel cuore del racconto della passione, nel momento più luminoso e insieme più tenebroso della vita di Gesù, il Vangelo di Giovanni consegna due parole che racchiudono un mistero immenso: «Ho sete» e «È compiuto».

Parole ultime, ma cariche di una vita intera, che svelano il senso di tutta l’esistenza del Figlio di Dio.

Sulla croce, Gesù non appare come un eroe vittorioso, ma come un mendicante d’amore.

Non proclama, non condanna, non si difende. Chiede, umilmente, ciò che da solo non può in alcun modo darsi.

La sete del Crocifisso non è soltanto il bisogno fisiologico di un corpo straziato.

È anche, e soprattutto, espressione di un desiderio profondo: quello di amore, di relazione, di comunione.

È il grido silenzioso di un Dio che, avendo voluto condividere tutto della nostra condizione umana, si lascia attraversare anche da questa sete.

Un Dio che non si vergogna di mendicare un sorso, perché in quel gesto ci dice che l’amore, per essere vero, deve anche imparare a chiedere e non solo a dare.

Ho sete, dice Gesù, e in questo modo manifesta la sua umanità e anche la nostra.

Nessuno di noi può bastare a sé stesso. Nessuno può salvarsi da solo. La vita si “compie” non quando siamo forti, ma quando impariamo a ricevere.

E proprio in quel momento, dopo aver ricevuto da mani estranee una spugna imbevuta di aceto, Gesù proclama: È compiuto.

L’amore si è fatto bisognoso e per questo ha portato a termine la sua opera.

Questo è il paradosso cristiano: Dio salva non facendo, ma lasciandosi fare.

Non vincendo il male con la forza, ma accettando fino in fondo la debolezza dell’amore.

Sulla croce, Gesù insegna che l’uomo non si realizza nel potere, ma nell’apertura fiduciosa all’altro, persino quando ci è ostile e nemico.

La salvezza non sta nell’autonomia, ma nel riconoscere con umiltà il proprio bisogno e nel saperlo liberamente esprimere.

Il compimento della nostra umanità nel disegno di Dio non è un atto di forza, ma un gesto di fiducia.

Gesù non salva con un colpo di scena, ma chiedendo qualcosa che da solo non può darsi.

Qui si apre una porta sulla vera speranza: se anche il Figlio di Dio ha scelto di non bastare a sé stesso, allora anche la nostra sete — di amore, di senso, di giustizia — non è un segno di fallimento, ma di verità.

Questa verità, apparentemente così semplice, è difficile da accogliere.

Viviamo in un tempo che premia l’autosufficienza, l’efficienza, la prestazione.

Eppure, il Vangelo mostra che la misura della nostra umanità non è data da ciò che possiamo conquistare, ma dalla capacità di lasciarci amare e, quando serve, anche aiutare.

Gesù ci salva mostrandoci che chiedere non è indegno, ma liberante.

È la via per uscire dal nascondimento del peccato, per rientrare nello spazio della comunione.

Fin dall’inizio, il peccato ha generato vergogna. Ma il perdono vero nasce quando possiamo guardare in faccia il nostro bisogno e non temere più di essere rifiutati.

La sete di Gesù sulla croce è allora anche la nostra. È il grido dell’umanità ferita che cerca ancora acqua viva.

Questa sete non ci allontana da Dio, piuttosto ci unisce a Lui. Se abbiamo il coraggio di riconoscerla, possiamo scoprire che anche la nostra fragilità è un ponte verso il cielo.

Proprio nel chiedere — non nel possedere — si apre una via di libertà perché smettiamo di pretendere di bastare a noi stessi.

Nella fraternità, nella vita semplice, nell’arte di domandare senza vergogna e di offrire senza calcolo, si nasconde una gioia che il mondo non conosce.

Una gioia che ci restituisce alla verità originaria del nostro essere: siamo creature fatte per donare e ricevere l’amore.

Nella sete di Cristo possiamo riconoscere tutta la nostra sete. E imparare che non c’è nulla di più umano, nulla di più divino, del saper dire: ho bisogno.

Non temiamo di chiedere, soprattutto quando ci sembra di non meritarlo. Non vergogniamoci di tendere la mano.

È in quel gesto umile che si nasconde la salvezza.

(Udienza generale in piazza San Pietro)