Le prospettive di pace nell’annosa disputa territoriale tra Thailandia e Cambogia

Quando diplomazia e dialogo
possono avere la meglio
sulle armi

epa12332952 Ousted Thai Prime Minister, Paetongtarn Shinawatra, attends a press conference  to ...
30 agosto 2025

di Francesco De Remigis

Per riportare la calma in un confine problematico del sud-est asiatico, come quello tra Thailandia e Cambogia, si è mossa la diplomazia internazionale. Che, se da un lato fatica a far tacere le armi sul fronte Ucraino e nella guerra a Gaza, in questa area di crisi è arrivata a un risultato tangibile: un cessate il fuoco «immediato e incondizionato» il 28 luglio scorso, dopo cinque giorni di intensi scontri al confine, interrompendo l’escalation delle tensioni che caratterizzano da decenni un territorio segnato dai retaggi coloniali del Novecento.

L’accordo è stato siglato in Malaysia durante i colloqui mediati dal premier malese, Anwar Ibrahim, e ha messo fine a un conflitto che ha causato numerose vittime e lo sfollamento di oltre 260.000 persone. Un risultato che, spiega Elisa Querini, responsabile Desk Asia-Pacifico presso il Ce.S.I., è stato «altamente sponsorizzato dalle maggiori potenze; oltre che dai Paesi del vicinato che non hanno interesse a vedere escalation di questo tipo peggiorare né continuare anche da Stati Uniti e Cina».

Insomma, un quadrante geografico che dà prova di come la diplomazia e il dialogo possano avere la meglio sui conflitti. Nei giorni scorsi si è inoltre tenuta una riunione straordinaria del Comitato regionale per le frontiere (Rbc) Thailandia-Cambogia in cui sono stati concordati undici punti per procedere verso la pace. Le parti hanno ribadito l’impegno ad attuare l'accordo raggiunto dal Comitato generale per le frontiere (Gbc) del 7 agosto; a mantenere strette comunicazioni militari ed evitare scontri; ad astenersi dal diffondere informazioni false; a evitare azioni provocatorie in conformità con gli accordi del 7 agosto e il cessate il fuoco del 28 luglio.

Nel sedare la disputa, hanno avuto un ruolo anche alcune autorità religiose dell’uno e dell’altro Paese, con appelli alla pace e alla difesa dei luoghi sacri: «Un importante fattore di pressione sulle leadership politiche», nota Querini. Ma non c’è solo la rivendicazione territoriale tra templi e montagne a dividere: «C’è un’altra area di contesa all’interno del Golfo di Thailandia, nel quale si stimano riserve di gas e petrolio per circa 300 miliardi di dollari. Se teniamo conto che la Thailandia utilizza per il fabbisogno una ingente quantità di Gnl e le riserve domestiche sono diminuite, con una maggiorazione dell’import e quindi dei prezzi, riserve di questo tipo diventano interessanti anche per la sicurezza nazionale».

Nel mezzo della crisi sono finite anche le autorità politiche. Non a caso, la Corte costituzionale della Thailandia ieri, venerdì 29 agosto, ha destituito dall’incarico il primo ministro thailandese, Paetongtarn Shinawatra, stabilendo che ha violato le regole etiche imposte dalla Costituzione durante una telefonata con l’ex leader della Cambogia, Hun Sen. La telefonata risale al 15 giugno e aveva lo scopo di allentare le tensioni, ma ha suscitato indignazione perché è apparsa «deferente», criticando anche un generale dell’esercito di Bangkok, che in Thailandia, spiega Querini, «è una presenza politica importante, per cui è stata richiesta la sospensione della premier il 1° luglio e durante il conflitto avevano un altro leader a guidare il Paese». Episodio che ha esacerbato la crisi interna alla Thailandia, che attraversa una fase di riassestamento «aggravata dalla fuoriuscita di notizie, come l’audio stesso di quella conversazione». Al tavolo, i due Paesi hanno intanto evidenziato lo «slancio positivo», di cui dà conto un comunicato congiunto, che ribadisce i progressi nell'attuazione degli impegni e l’importanza dello sminamento. È stato deciso di istituire un Gruppo di coordinamento per migliorare la comunicazione a tutti i livelli e risolvere pacificamente le questioni. «Per raggiungere uno sperato stato di pace, di dialogo, sicuramente questi sono passi molto positivi, i cui risultati potremmo valutare soltanto col tempo», conclude Querini, «ma non devono però farci cadere nell’illusione che il conflitto sia risolto», vista la complessità anche geografica di un confine di circa 800 chilometri.