Conclusa la Settimana ecumenica a Stoccolma. Intervista all’arcivescovo Pace

Il cammino di unità
come testimonianza
per guarire le ferite
di un’umanità divisa

 Il cammino di unità come testimonianza  per guarire le ferite di un’umanità divisa  QUO-194
25 agosto 2025

di Beatrice Guarrera

Una chiamata a «servire insieme» il mondo nella ricerca della pace, della giustizia e della dignità umana. Questo l’invito rivolto nel 1925 dall’arcivescovo Nathan Söderblom, all’epoca arcivescovo luterano di Uppsala, a 600 leader ortodossi, anglicani e protestanti che si riunirono a Stoccolma. A distanza di cento anni, hanno risposto allo stesso invito i capi delle Chiese cristiane che hanno partecipato alla Settimana ecumenica a Stoccolma, conclusasi ieri, domenica 24 agosto. L’arcivescovo Flavio Pace, segretario del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, ha raccontato ai media vaticani la gioia di aver partecipato all’evento e l’importanza che assume per il dialogo ecumenico, in questo anno speciale in cui ricorre anche il 1700° anniversario del Concilio di Nicea.

Durante la Settimana ecumenica, c’è stato più volte un richiamo alla comunione tra le Chiese. Quella alla comunione è una chiamata, ma anche un mistero difficile da comprendere, a volte. Cosa ci dicono le Scritture su questo?

Ci rimandano alla preghiera di Gesù nell’ultima cena che si rivolge al Padre nel momento più alto della sua vita, prima della consegna totale di sé sulla croce. Prega perché «loro siano una cosa sola, come Io e te, Padre, siamo una cosa sola». Per cui il richiamo alla comunione è un richiamo alla vita trinitaria. E noi, con il battesimo e la professione di fede trinitaria, siamo immersi in questo mistero di comunione e non possiamo vivere una vita cristiana senza la preghiera di Gesù. Per noi non è una scelta strategica, quella della comunione tra tutti i credenti in Cristo, ma è un obbedire alla preghiera di Gesù, porsi in ascolto del suo stesso cuore.

Papa Leone XIV ha inviato un messaggio per questa Settimana ecumenica e fin dal momento della sua elezione ha parlato del tema dell’unità. Quanto è cruciale in questo momento storico questo tema per le Chiese?

È importantissimo perché, in un mondo che è lacerato e sempre più si lacera in tante dimensioni — sia quelle più evidenti, con i conflitti in corso sia in tanti altri ambiti in cui lo spirito di divisione è all’opera —, il fatto che le Chiese e le comunità cristiane, che pure purtroppo vivono lo scandalo della divisione, sentano forte l’appello a dare rinnovato vigore a un cammino verso un’unità visibile, diventa una testimonianza e anche una guarigione. È come “versare l’olio e il vino del buon samaritano” sulle ferite di un'umanità divisa.

Qual è il clima che si respirava tra voi partecipanti a questa Settimana ecumenica?

Il clima era davvero molto positivo per come è stato preparato l’evento, frutto di una collaborazione nel Consiglio cristiano delle Chiese cristiane qui in Svezia che poi ha allargato gli orizzonti anche altri partner internazionali come appunto il Santo Padre e la Santa Sede, ma penso anche al Consiglio Mondiale delle Chiese. L’evento ha visto il coinvolgimento anche delle persone, delle comunità, non solo dei leader. Nelle strade di Stoccolma, erano segnalati alcuni luoghi dove si sono tenuti gli incontri. C’è stato anche un festival in piazza per dire che questo appello vuole essere qualcosa che non riguarda le nostre chiese, le sacrestie, ma deve diventare un segno forte dentro la società. Anche la presenza a una delle celebrazioni conclusive sia dei reali di Svezia, così come del primo ministro, e anche l’incontro che il ministro addetto ai culti ha voluto avere i leader, dice il desiderio di una società che vede la dimensione religiosa non come qualcosa di privato, ma come qualcosa che vuole contribuire a una cittadinanza e una civiltà dell’amore e della pace.

Come possono i leader cristiani, che hanno partecipato alla Settimana ecumenica di Stoccolma, trasmettere questa chiamata all’unità alle persone sparse in tutto il mondo?

L’esperienza di questi giorni è stata un’esperienza dello Spirito e nello Spirito. Per cui noi tutti torniamo con tanta gioia e col desiderio di raccontarla. La dimensione ecumenica a volte rischia di essere una dimensione un po’ di élite, perché i leader si incontrano, ma non sempre le comunità riescono a percepire la bellezza e la realtà di questo dialogo, che oramai va avanti da decenni, a seconda delle differenti Chiese. Per cui bisogna cercare di vivere incontri anche in futuro, dove i leader rendono visibile il loro stare insieme, non soltanto si ritrovano tra di loro. Questo è un segno bello per la società, ma anche per le comunità cristiane che a volte vivono ancora un po’ le diffidenze reciproche, legate magari a delle ferite storiche che vanno ancora risanate.

Nel 2025 si celebra anche il 1700° anniversario del primo Concilio Ecumenico di Nicea. Quali sono gli insegnamenti che possono essere utili oggi alle Chiese, se si guarda a quel primo Concilio?

La cosa molto toccante è che il Concilio fu convocato dall’imperatore Costantino in un momento in cui la professione di fede in Cristo rischiava di diventare un elemento di divisioni per differenti interpretazioni. Fu un Concilio che volle chiarire la professione di fede in Cristo, perché potesse essere vissuta nell’unità. Per cui l’eredità di Nicea è quella del sentire che in alcune occasioni lo Spirito ci chiama a trovarci insieme per ridire insieme le verità della fede, ma anche per ritrovare un rinnovato stimolo all’unità. È molto suggestivo che a Stoccolma, sia cento anni fa che in questa Settimana ecumenica, sia stata presente Nicea. Alla Conferenza del 1925, il patriarca di Alessandria, greco ortodosso, proclamò la fede di Nicea in greco. Ieri nella cattedrale di Uppsala, che è la cattedrale del primate luterano di Svezia, è stato il patriarca ecumenico Bartolomeo a proclamare a nome di tutti, in greco, il Simbolo di Nicea.