Aperto dal cardinale Parolin il Giubileo degli influencer

Creativi per rinnovare l’ambiente digitale

  Creativi per rinnovare l’ambiente digitale   QUO-173
28 luglio 2025

di Edoardo Giribaldi

Come può il mondo digitale diventare comunicatore di fede? Assumendo «il ritmo, le ferite, le domande», di chi lo abita, senza cedere alla superficialità, o alle «tentazioni del protagonismo». Farsi ascoltare, non come semplici «influencers», ma come autentici «testimoni». Ascoltare, promuovendo, «per quanto paradossale», il «valore del silenzio». Altrimenti, il rischio è quello di diventare «merce», assuefatti alla cultura dello «scrolling» insensibile. E per un termine nuovo e complicato, utilizzare il neologismo di Papa Francesco: «samaritanizzare», ovvero farsi prossimo di chi soffre, rendendo presente ovunque «la misericordia di Dio». Sono questi alcuni degli spunti che stanno guidando il Giubileo dei missionari digitali e degli influencer cattolici, inaugurato questa mattina presso l’Auditorium Conciliazione di Roma.

Dopo le Messe celebrate nelle parrocchie di Santa Maria delle Grazie, San Gregorio VII, San Giuseppe al Trionfale e Santo Spirito in Sassia, i partecipanti si sono dati appuntamento in via della Conciliazione, dove sono intervenuti il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin; l’arcivescovo Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione e responsabile dell’organizzazione dell’Anno Santo; Paolo Ruffini, e monsignor Lucio Ruiz, rispettivamente prefetto e segretario del Dicastero per la Comunicazione.

Due riflessioni sono state offerte dai gesuiti David McCallum, direttore esecutivo del Discerning Leadership Program, e Antonio Spadaro, sottosegretario del Dicastero per la Cultura e l’Educazione. La prima, intitolata Connessi alla Parola, ha posto al centro le Scritture come autentica esperienza unificante, «più del Wi-Fi o degli hashtag». La seconda, Andate… fino ai confini digitali, si è concentrata sul rapporto tra teologia e missione «ai tempi delle reti e degli algoritmi».

Il cardinale Parolin ha innanzitutto presieduto un momento di preghiera con l’invocazione allo Spirito Santo, poi ha aperto il suo intervento riflettendo in particolare sugli scopi e gli obiettivi dei social media. Primo tra tutti, quello di fornire informazioni. Ma, ha precisato, «ciò che ci rende persone è la capacità di farci delle domande». E il quesito che oggi interpella tutti è: come può il mondo digitale, che sta trasformando rapidamente le dinamiche sociali, diventare un comunicatore di fede? Le strade già percorse dalla Chiesa, ha ricordato il porporato, sono quelle dell’«essere nel mondo, ma non del mondo», dell’abitare il tempo senza appartenervi.

L’evangelizzazione non può ridursi a una questione tecnica o educativa, poiché il digitale rappresenta oggi una vera e propria dimensione del pensiero e della comunicazione. Non si tratta di elaborare strategie, ma di garantire una presenza intrisa di umanità. «Fare missione digitale — ha proseguito il segretario di Stato — significa assumere il ritmo, le ferite, le domande e le ricerche di coloro che abitano quello spazio, senza cedere all’anonimato, alla superficialità o alle tentazioni del protagonismo».

A Panamá, in occasione della Giornata mondiale della Gioventù 2019, Papa Francesco definì Maria «l’influencer di Dio»; dopo di lui, Leone XIV ha invitato a riconoscere il «vero significato della vita», piuttosto che la «disponibilità di dati». Oggi, la sfida — ha concluso Parolin — è proprio questa: «fare nuovo l’ambiente digitale».

«Quando parliamo di evangelizzazione, siamo soliti concentrarci sui contenuti, e spesso dimentichiamo chi evangelizza e chi viene evangelizzato». Con queste parole monsignor Fisichella è intervenuto richiamando l’attenzione sulla dimensione relazionale e personale dell’annuncio cristiano. Il termine «Vangelo» — ha ricordato il presule — compare per la prima volta nel libro del profeta Isaia, in riferimento alle sentinelle che annunciano la libertà dalla schiavitù. In questo senso, l’immagine acquista oggi una nuova forza: con internet, i volti diventano visibili. «Come sono belli i vostri, che portano la Bella Notizia del Vangelo! Non abbiate mai timore di affermare che la speranza ha un volto, ha un nome: si chiama Gesù Cristo».

San Paolo VI, nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, scriveva che il mondo non ascolta più volentieri i maestri, ma i testimoni. Oggi — ha sottolineato Fisichella — il mondo non ascolta gli influencer in quanto tali, ma li ascolta quando sono testimoni.

«Siamo pellegrini di speranza che trascende», ha affermato Ruffini, richiamando la vocazione profonda della Chiesa in un tempo complesso. «Viviamo un’epoca difficile — ha aggiunto — ma la Chiesa era “rete” molto prima che essa diventasse il web».

Ciò che unisce oggi, anche in un tempo segnato dal digitale, ricco tanto di promesse quanto di rischi, è una visione di Chiesa come comunità non fatta di algoritmi o chatbot, ma di persone reali. Una rete imperfetta, che diventa una cosa sola nel battesimo, dove nessuno è al centro, ma dove ciascuno coltiva il desiderio di farsi piccolo perché Gesù sia glorificato.

Ruffini ha poi delineato alcune delle sfide più urgenti: disinformazione, disgregazione, isolamento. «Viviamo in una tensione continua tra il nonsense e la ricerca di senso, tra la paura di perdersi qualcosa e il desiderio di trovare qualcosa», tra lo scrolling infinito e l’incontro autentico. Un’esperienza sfumata, dispersa tra le reti.

Il prefetto del Dicastero per la comunicazione ha quindi proposto un cambiamento nel rapporto tra influencer e follower secondo il paradigma cristiano: «Vieni e seguimi». Un invito a restituire profondità alla parola «amicizia», distinguendo la performance dalla condivisione sincera, quella che crea legami reali, paritari, umani.

Con gratitudine monsignor Ruiz ha richiamato «la tenerezza e la presenza della Chiesa come madre», che accompagna i suoi figli anche a distanza. «Grazie — ha detto — anche a nome di quanti non sono potuti essere qui. Siamo una Chiesa missionaria e pellegrina». Al cuore della missione non ci sono le strategie, ma la testimonianza della propria vita. E in questo senso, il prelato ha richiamato un «neologismo» caro a Papa Bergoglio: «samaritanizzare». Ovvero farsi prossimo, accorgersi del dolore, prendersi cura, proprio come il Buon Samaritano della parabola evangelica. «L’attenzione al dolore dell’altro è il punto chiave della missione, perché rende presente la misericordia di Dio».

In proposito Ruiz ha sottolineato che l’obiettivo della Chiesa nel digitale non è la produzione di contenuti, ma l’incontro con le persone. Si tratta di rialzare chi è caduto, di dare speranza a chi cerca un senso, di custodire il valore del primo annuncio.

Nel suo intervento, Spadaro ha invitato i presenti a riscoprire il senso profondo della presenza cristiana nel digitale: non una strategia di comunicazione, ma una testimonianza viva e autentica. «Non vi chiedo di brillare, ma di bruciare», ha affermato, esortando i missionari digitali a essere fuoco che scalda, illumina e accompagna. Il web non è solo un mezzo, ma un luogo reale «da abitare con fede», e l’algoritmo conosce i dati, ma non l’anima: per questo la vera influenza nasce dall’amore, non dalla performance. Non si tratta di «creare fanbase», ma fraternità; non di rincorrere approvazione, ma di generare legami. In proposito, il gesuita rivolgendosi ai ragazzi ha detto: «Il vostro valore non è nel numero di like, ma nella verità che riuscite a portare. E quando nessuno mette like, quando un post “va male”, quando un video “non funziona”, ricordatevi: anche Gesù, sulla croce, sembrava un fallimento. Ma era lì proprio che accadeva la salvezza, in quel fallimento».

In un’epoca dominata da reazioni e polemiche, la sfida è comunicare con compassione e visione, restando umani, «radicati» in Dio e capaci di accendere speranza. Il digitale, ha sottolineato, ha bisogno di testimoni più che di tecnici. «Anche la parola “influencer” sta cambiando», ha riflettuto il religioso rimarcando la diffusione del termine “creator”: «Perché? Perché l’influenza non basta più. Le aziende, i media, la cultura stessa non cercano più solo chi sposta l’opinione, ma chi crea valore». Un “creator”, infatti, «non è solo uno che “porta traffico”. È uno che genera realtà e mette al mondo nuovi immaginari». Di qui l’invito da parte del sottosegretario sacerdote, giornalista e scrittore non a influenzare «come fa il marketing» bensì a «creare come fa il Vangelo, a generare narrazioni nuove. Non per vendere, ma per salvare; non per spostare l’opinione pubblica, ma per toccare i cuori». E se nelle reti sociali nessuna informazione è neutra, occorre che ciascuno si assuma «le proprie responsabilità e il proprio compito nella conoscenza»: in questo senso occorre attenzione al «rischio di pensare che un post funziona se è in qualche modo sexy, al maschile o al femminile o “genderless”, addirittura sfoggiando un “appeal” da messa in posa». Di fatto, ha concluso, non solo «non esiste un physique du rôle cattolico», ma l’ostentazione della potenza propria dell’attrazione, «rischia sempre di essere seduttiva e dunque di vanificare il messaggio stesso che, pur in buona fede, si intende comunicare».

Nel corso della giornata sono state condivise, inoltre, alcune prospettive del Gruppo di Studio del Sinodo sulla Sinodalità, lavorando per individuare il senso di essere pienamente presenti come Chiesa nella cultura digitale. Nel pomeriggio si svolgono due tavole rotonde: una per scambi di esperienze sulla missione digitale, con rappresentanti internazionali. La seconda, sui “santi influencer di Dio”. Al termine di ciascuna, un tempo di scambi e condivisioni nei gruppi di lavoro.

A chiudere, la preghiera guidata dal cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, arcivescovo emerito di Tegucigalpa. In serata, infine, il cardinale José Cobo Cano, arcivescovo di Madrid, presiede, nella basilica Vaticana, l’adorazione eucaristica e la liturgia penitenziale nella basilica Vaticana.