
Pubblichiamo l’intervento tenuto dal direttore del nostro giornale al convegno “Global South Innovation” svoltosi a Maida (Catanzaro) dal 9 all’11 luglio, forum internazionale dedicato ai temi dello sviluppo sostenibile e dell’innovazione armonica.
di Andrea Monda
Papa Leone XIV ha espresso più volte — anche nei giorni scorsi — il desiderio di recarsi in Turchia per le celebrazioni dei 1700 anni dal primo grande concilio della Chiesa. E vorrei partire proprio da qui, da Nicea e da quei luoghi così altamente significativi e suggestivi. Ma prima di riflettere su queste terre bagnate dal Mare Nostrum è necessario dire due parole sull’altro tema che fa da sfondo, insieme al Mediterraneo, a questo nostro incontro, il tema della sostenibilità, questa parola che, per fortuna, da qualche anno è diventato la pietra di paragone, se non di inciampo di qualsiasi attività umana, non solo economica.
Circa una ventina di anni fa, all’alba del terzo millennio, intrecciarono un prezioso dialogo due grandi intellettuali, due pensatori, entrambi tedeschi, il filosofo Jurgen Habermas e il teologo Joseph Ratzinger. Tra i diversi temi affrontati nel loro confronto, è interessante ricordare una riflessione di Ratzinger sul fatto che, secondo lui, nel mondo occidentale si era realizzato negli ultimi decenni un grandioso sviluppo della scienza e della tecnologia, a fronte del quale non c’era stato un altrettanto grande sviluppo della dimensione etica. La struttura morale dell’occidente non era cresciuta quanto quella tecno-scientifica. È come se un adolescente fosse cresciuto solo nelle membra fisiche del proprio corpo ma il resto della sua persona fosse rimasta a livello dell’infanzia. Non è un caso che chiamiamo l’esame finale dell’arco scolastico, esame di maturità. Forse sta qui, in questo gap tra tecnica ed etica, la sostenibilità. La questione cioè è sulla nostra maturità etica, se cioè vogliamo e come possiamo tenere fronte, sos-tenere appunto, l’accelerazione dello sviluppo che abbiamo prodotto insieme a tutte le sue molteplici e inquietanti conseguenze.
Il tempo “fuori dai cardini”
Come far fronte quindi alle sfide di un mondo che sembra sfuggito di mano, di un momento storico, l’attuale, in cui sembra proprio che "Time is out of joint", per dirla con Amleto. La citazione di Shakespeare, ripresa un secolo fa da Eliot ne La Terra Desolata, parla di un tempo che è “fuori dai cardini", fuori controllo, a esprimere un senso di crisi, di disordine, di rottura dell’ordine naturale delle cose. Faccio volutamente riferimento alla poesia, ai poeti, perchè abbiamo bisogno di loro. Lo ha detto a più riprese Papa Francesco, il più lucido e acuto “analista” della contemporaneità, della situazione di crisi in cui versa tutto il mondo lacerato da una “terza guerra mondiale a pezzetti”, come Bergoglio ebbe a dire, tra il silenzio e il dileggio di molti, già ben dodici anni fa.
C’è bisogno non solo di economisti, di politici, di esperti ma di quei particolari “esperti” non di una disciplina particolare ma del tutto, della vita, che sono i poeti. E per parlare di poesia devo ritornare al Mediterraneo e lì dove eravamo partiti, da Nicea.
Nicea è lì, in quello splendido nodo della geografia dove Europa e Asia si baciano e si battono, com-baciano, com-battono. È quello il teatro della prima e più celebre guerra della storia degli uomini, la guerra di Troia. Lì vicino a Nicea c’era l’antica città di Ilio e proprio da lì, da quelle sponde del mare hanno avuto origine i tre grandi poemi fondanti la civiltà occidentale: l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide. Achille, Ulisse ed Enea stanno tutti lì, dove tutto ha avuto inizio. E stiamo ancora tutti lì, anche noi. Alle prese con la scelta su chi vogliamo essere: l’iroso e potente, anzi super-potente, Achille? L’astuto Ulisse? Il pio Enea?
Achille, Ulisse o Enea?
Tutte le storie partono da quel nodo geografico, dove il Mediterraneo si restringe come in un imbuto per far toccare le sponde lontane e nemiche, quelle antiche storie sono come le matrici di tutte le storie. Almeno fino all’avvento di Cristo, che ha davvero cambiato tutto. Chi ha compreso bene questo passaggio è il poeta argentino J. L.Borges che nel suo apocrifo Vangelo di Marco scrive: «Nel corso del tempo gli uomini hanno sempre ripetuto due storie: quella di un’imbarcazione sperduta alla ricerca di un’isola amata nei mari mediterranei, e quella di un dio che si fa crocifiggere sul Golgota». Ulisse e Cristo, i due grandi archetipi narrativi. Ulisse: l’uomo sbattuto nelle onde tempestose della vita, tempeste agitate da divinità imperturbabili, bizzose e dispettose che chiedono continuamente sacrifici soprattutto dei migliori e degli innocenti tra gli uomini. Cristo: la divinità che si commuove e s’incarna e, innocente, diventa vittima dell’ultimo sacrificio per la definitiva redenzione, non chiedendo più il sangue ma offrendo il suo sangue in sacrificio per tutti gli uomini (su questo tema ha pagine mirabili René Girard). Ho voluto citare Borges che cantava la sua poesia dalla lontana Buenos Aires, ma che poi in realtà non è poi così lontana (anche l’Argentina in un certo senso è bagnata dalle stesse acque del Mediterraneo), per introdurre qualche altra citazione dell’unico pontefice argentino, fino ad oggi, che sul Mediterraneo nel corso dei suoi 12 anni di magistero, con il suo genio poetico e profetico, ha più volte pronunciato discorsi e appelli lungimiranti e purtroppo inascoltati tenendo insieme due grandi questioni quanto mai urgenti e drammatiche: le migrazioni e la pace. I temi, se ci pensiamo bene, dei tre grandi poemi di Omero e Virgilio.
Nell’incontro dei vescovi del Mediterraneo nella Basilica di San Nicola a Bari il 23 febbraio 2020 ebbe a dire: «Il Mare nostrum è il luogo fisico e spirituale nel quale ha preso forma la nostra civiltà, come risultato dell’incontro di popoli diversi. Proprio in virtù della sua conformazione, questo mare obbliga i popoli e le culture che vi si affacciano a una costante prossimità, invitandoli a fare memoria di ciò che li accomuna e a rammentare che solo vivendo nella concordia possono godere delle opportunità che questa regione offre dal punto di vista delle risorse, della bellezza del territorio, delle varie tradizioni umane. Ai nostri giorni, l’importanza di tale area non è diminuita in seguito alle dinamiche determinate dalla globalizzazione; al contrario, quest’ultima ha accentuato il ruolo del Mediterraneo, quale crocevia di interessi e vicende significative dal punto di vista sociale, politico, religioso ed economico. Il Mediterraneo rimane una zona strategica, il cui equilibrio riflette i suoi effetti anche sulle altre parti del mondo. Si può dire che le sue dimensioni siano inversamente proporzionali alla sua grandezza, la quale porta a paragonarlo, più che a un oceano, a un lago, come già fece Giorgio La Pira. Definendolo “il grande lago di Tiberiade”, egli suggerì un’analogia tra il tempo di Gesù e il nostro, tra l’ambiente in cui Lui si muoveva e quello in cui vivono i popoli che oggi lo abitano. E come Gesù operò in un contesto eterogeneo di culture e credenze, così noi ci collochiamo in un quadro poliedrico e multiforme, lacerato da divisioni e diseguaglianze, che ne aumentano l’instabilità. In questo epicentro di profonde linee di rottura e di conflitti economici, religiosi, confessionali e politici, siamo chiamati a offrire la nostra testimonianza di unità e di pace. (…) La trasmissione della fede non può che trarre frutto dal patrimonio di cui il Mediterraneo è depositario. (…) Il Mediterraneo ha una vocazione peculiare in tal senso: è il mare del meticciato, “culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione”. Le purezze delle razze non hanno futuro. Il messaggio del meticciato ci dice tanto. Essere affacciati sul Mediterraneo rappresenta dunque una straordinaria potenzialità: non lasciamo che a causa di uno spirito nazionalistico, si diffonda la persuasione contraria, che cioè siano privilegiati gli Stati meno raggiungibili e geograficamente più isolati. Solamente il dialogo permette di incontrarsi, di superare pregiudizi e stereotipi, di raccontare e conoscere meglio sé stessi. Il dialogo e quella parola che ho sentito oggi: convivialità. (…)».
Capire il meticciato
per capire il Mediterraneo
L’anno prima, il 21 giugno 2019, a Napoli parlando alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale aveva detto: «Il Mediterraneo è da sempre luogo di transiti, di scambi, e talvolta anche di conflitti. Ne conosciamo tanti. Questo luogo oggi ci pone una serie di questioni, spesso drammatiche. (...) Non è possibile leggere realisticamente tale spazio se non in dialogo e come un ponte, storico, geografico, umano, tra l’Europa, l’Africa e l’Asia. Si tratta di uno spazio in cui l’assenza di pace ha prodotto molteplici squilibri regionali, mondiali, e la cui pacificazione, attraverso la pratica del dialogo, potrebbe invece contribuire grandemente ad avviare processi di riconciliazione e di pace. (…) se noi non capiamo il meticciato, non capiremo mai il Mediterraneo – un mare geograficamente chiuso rispetto agli oceani, ma culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione. Nondimeno vi è bisogno di narrazioni rinnovate e condivise che ― a partire dall’ascolto delle radici e del presente ― parlino al cuore delle persone, narrazioni in cui sia possibile riconoscersi in maniera costruttiva, pacifica e generatrice di speranza. (...) La teologia ― tenendo la mente e il cuore fissi sul «Dio misericordioso e pietoso» (cfr Gn 4,2) ― può aiutare la Chiesa e la società civile a riprendere la strada in compagnia di tanti naufraghi, incoraggiando le popolazioni del Mediterraneo a rifiutare ogni tentazione di riconquista e di chiusura identitaria. Ambedue nascono, si alimentano e crescono dalla paura. La teologia non si può fare in un ambiente di paura. Il Mediterraneo è matrice storica, geografica e culturale dell’accoglienza kerygmatica praticata con il dialogo e con la misericordia».
Tutti ricordiamo che il primo viaggio di Papa Francesco, nel luglio del 2013, fu proprio nel centro del Mediterraneo, a Lampedusa e in quelle acque buttò una corona di fiori per tutti i naufraghi e i morti. Il 22 settembre del 2023 a Marsiglia si fermò davanti al Memoriale dedicato ai marinai e ai migranti dispersi in mare e pronunciò queste parole: «Dinanzi a noi c’è il mare, fonte di vita, ma questo luogo evoca la tragedia dei naufragi, che provocano morte. Siamo riuniti in memoria di coloro che non ce l’hanno fatta, che non sono stati salvati. Non abituiamoci a considerare i naufragi come fatti di cronaca e i morti in mare come cifre: no, sono nomi e cognomi, sono volti e storie, sono vite spezzate e sogni infranti. Penso a tanti fratelli e sorelle annegati nella paura, insieme alle speranze che portavano nel cuore. Davanti a un simile dramma non servono parole, ma fatti. Prima ancora, però, serve umanità, serve silenzio, pianto, compassione e preghiera. (…) Troppe persone, in fuga da conflitti, povertà e calamità ambientali, trovano tra le onde del Mediterraneo il rifiuto definitivo alla loro ricerca di un futuro migliore. E così questo splendido mare è diventato un enorme cimitero, dove molti fratelli e sorelle sono privati persino del diritto di avere una tomba, e a venire seppellita è solo la dignità umana».
Il giorno dopo al Palazzo del Faro aggiunse: «(…) Il Mediterraneo torni a essere laboratorio di pace. Perché questa è la vocazione, essere luogo dove Paesi e realtà diverse si incontrino sulla base dell’umanità che tutti condividiamo, non delle ideologie che contrappongono. Sì, il Mediterraneo esprime un pensiero non uniforme e ideologico, ma poliedrico e aderente alla realtà; un pensiero vitale, aperto e conciliante: un pensiero comunitario, questa è la parola. Quanto ne abbiamo bisogno nel frangente attuale, dove nazionalismi antiquati e belligeranti vogliono far tramontare il sogno della comunità delle nazioni! Ma – ricordiamolo – con le armi si fa la guerra, non la pace, e con l’avidità di potere sempre si torna al passato, non si costruisce il futuro. (…) Per favore, impegniamoci perché quanti fanno parte della società possano diventarne cittadini a pieno diritto. E poi c’è un grido di dolore che più di tutti risuona, e che sta tramutando il mare nostrum in mare mortuum, il Mediterraneo da culla della civiltà a tomba della dignità» e ripensando alla sua visita a Marsiglia, all’Udienza generale in Piazza San Pietro il mercoledì successivo, 27 settembre 2023, ribadì che «Il Mediterraneo, lo sappiamo, è culla di civiltà, e una culla è per la vita! Non è tollerabile che diventi una tomba, e nemmeno un luogo di conflitto. Il Mare Mediterraneo è quanto di più opposto ci sia allo scontro tra civiltà, alla guerra, alla tratta di esseri umani. È l’esatto opposto, perché il Mediterraneo mette in comunicazione l’Africa, l’Asia e l’Europa; il nord e il sud, l’oriente e l’occidente; le persone e le culture, i popoli e le lingue, le filosofie e le religioni. Certo, il mare è sempre in qualche modo un abisso da superare, e può anche diventare pericoloso. Ma le sue acque custodiscono tesori di vita, le sue onde e i suoi venti portano imbarcazioni di ogni tipo. Dalla sua sponda orientale, duemila anni fa, è partito il Vangelo di Gesù Cristo».
Infine, nell’ultimo viaggio, che come l’arcata di un ponte chiude i suoi viaggi cominciati a Lampedusa, dal mediterraneo al mediterraneo, ad Ajaccio il 15 dicembre 2024 Bergoglio disse:
«Le terre bagnate dal mar Mediterraneo sono entrate nella storia e sono state la culla di molte civiltà che hanno raggiunto un notevole sviluppo. Ricordiamo, in particolare, quella greco-romana e quella giudeo-cristiana, che attestano la rilevanza culturale, religiosa, storica di questo grande “lago” in mezzo a tre continenti, di questo mare unico al mondo che è il Mediterraneo. Non possiamo dimenticare che nella letteratura classica, quella greca e quella latina, spesso il Mediterraneo è stato lo scenario ideale per la nascita di miti, racconti e leggende. Come pure il fatto che il pensiero filosofico e le arti, insieme con le tecniche di navigazione, permisero alle civiltà del Mare nostrum di sviluppare una cultura elevata, di aprire vie di comunicazione, di costruire infrastrutture e acquedotti e, ancor più, sistemi giuridici e istituzioni di notevole complessità, i cui principi di base sono ancora oggi validi e attuali».
Questo excursus nelle parole di Papa Francesco dedicate al Mediterraneo spero che ci abbia non solo emozionati ma anche resi inquieti. Del resto se non lo fossimo, se non avessimo nel nostro cuore quell’inquietudine (e qui il pensiero vola subito a Papa Leone, figlio di Agostino) che sola ci rende umani, non saremmo qui, a fare questi tre giorni di bella convivialità per riflettere tutti insieme... perché lo stiamo facendo? Perché se non per cercare una via per rendere sempre più umano il mondo che abitiamo e che spesso finiamo solo per sfruttare e saccheggiare? Perché, se non per passare da una mentalità estrattiva ad una generativa che è l’unica via per abitare poeticamente, cioè umanamente questo strano, eccezionale, pianeta che chiamiamo blu, perchè sì, il Mediterraneo è solo un “grande lago”, ma in realtà tutti i continenti sono solo delle isolette in questa immensità azzurra che chiamiamo mare, quella cosa che, come dice Borges: «quando un uomo vede il mare / lo vede sempre per la prima volta»? Abbiamo perso questo sguardo fresco, senza il quale tutto il resto dell’attività umana diventa solo produzione e consumo, effetto senza affetto, prestazione e risultato senza pathos, senza pietà, calore, svuotamento di significati e produzione di scarti umani.
Che intendiamo
quando diciamo “civiltà”
Allora dobbiamo intenderci su cosa diciamo quando diciamo civiltà, senza gonfiarci d’orgoglio per le nostre radici occidentali e tornare a quelle radici, a quelle fonti, per ricomprendere cosa cantavano quei poeti lungo le sponde di Ilio prima assediata e poi in fiamme.
Cosa diciamo quando diciamo civiltà? Qui ci possono aiutare le parole dell’antropologa Margaret Mead che così rispose allo studente che le chiese quale riteneva che fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che la Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. La Mead disse che «il primo segno di civiltà in una cultura antica era un femore rotto e poi guarito». Spiegò che nel regno animale, se ti rompi una gamba, muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere qualcosa o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici che si aggirano intorno a te. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. La Mead disse che «aiutare qualcun altro nelle difficoltà è il punto preciso in cui la civiltà inizia». Essere civili è questo.
Rispondere alla “cultura” degli scarti con la cultura della cura. E qui tornano i poeti, anzi il più grande dei poeti, Dante che proprio nel canto dedicato a Ulisse, ha sancito una volta per tutte l’alto destino degli uomini con i versi immortali che tutti conosciamo: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Inferno 26^). I bruti, gli animali, producono scarti, non curano chi è caduto, mentre gli esseri umano fanno come il buon samaritano: di colui che è caduto ne bendano le ferite, “perdendo” tutto il tempo necessario per l’altro, il prossimo, il fratello, anche se quello è il nemico. E a proposito del nemico, questa parola che ancora infesta il nostro parlare, anche quotidiano, ritorniamo a quel primo grande poema, l’Iliade, un poema epico, di guerra. Ricordiamo tutti come inizia il poema, con l’ira di Achille, l’eroe, il super-eroe degli Achei, dei Greci. Ma come finisce? Con i funerali di Ettore, l’eroe troiano, il nemico. Straordinario cambio di prospettiva con il funerale, la pietà, il culto di un morto, di un nemico morto.
La tenerezza:
è questo il punto
Il 28 febbraio scorso ho pubblicato un editoriale in cui parlavo delle scene che arrivavano da diverse parti del mondo dilaniate dai conflitti e scrivevo che stavamo assistendo «a veri e propri show macabri in cui viene esibito come un vanto il potere sull’altro, sul corpo dell’altro, vivo, imprigionato, incatenato o, peggio ancora, già morto, quando invece proprio il culto dei morti è stato ed è l’inizio dell’affermazione dell’umano e di ciò che chiamiamo civiltà» e mi chiedevo: «Si tratta insomma di scegliere quale Achille vogliamo essere: quello del libro 22 dell’Iliade che fa scempio del cadavere del nemico sconfitto o quello del libro 24 che, commosso dalla richiesta del vecchio padre Priamo, gli restituisce il corpo di Ettore? L’Achille dell’ira superba o l’Achille che si disarma arrendendosi alla tenerezza? La tenerezza, questo è il punto. È quella forza rivoluzionaria che dovremmo liberare per sanare ferite di un mondo lacerato come ha auspicato tante volte Papa Francesco. “Credo che quando la barbarie diventa normalità, la tenerezza è l’unica insurrezione”, ha affermato il cantautore Simone Cristicchi. Di questa insurrezione ha fame il cuore umano come ha ricordato la poetessa Ada Merini: «Abbiamo fame di tenerezza in un mondo dove tutto abbonda». Un’abbondanza che rischia di rivelarsi un deserto dove inaridisce ogni germoglio di stupore e quindi di speranza. Lo esprime efficacemente Albert Camus nei suoi Taccuini: «Dovessi scrivere io un trattato di morale, avrebbe cento pagine, novantanove delle quali assolutamente bianche. Sull’ultima poi scriverei: “Conosco un solo dovere ed è quello di amare. A tutto il resto dico no...Questo mondo senza amore è un mondo morto e giunge sempre un’ora in cui ci si stanca delle prigioni, del lavoro, del coraggio per reclamare il volto di un essere e il cuore meravigliato della tenerezza”».
Achille dunque, ma quello che si commuove di fronte al vecchio padre Priamo, vecchio come il suo padre, Peleo. E insieme ad Achille, Ulisse ed Enea, cioè dei naufraghi, dei profughi e degli esiliati.
Ulisse viaggia in lungo e in largo nel Mediterraneo e, tra le mille sfide che vivrà, c’è quella dell’offerta, da parte della ninfa Calipso, di vivere la vita degli dei, felice e senza tramonto, senza vecchiaia, e lui dovrà scegliere se tornare a Itaca o stare con la divina Calipso...se ci pensiamo ricorda proprio la sfida che abbiamo oggi di fronte alle promesse della tecno-scienza, dell’intelligenza artificiale. Come risponderemo? Sappiamo come rispose Ulisse, tornando dalla sua Penelope, più anziana di venti anni di fedele attesa. Si potrebbe dire che Penelope è la “sostenibilità” di Ulisse, di sicuro è il suo sostegno, ma anche qualcosa in più, quel “qualcosa” di cui abbiamo tutti bisogno, quella maturità etica di cui parlava Ratzinger dialogando con Habermas, quella capacità di frenarsi e dire a se stesso: smettiamola a giocare a fare Dio e godiamo della felicità di un talamo nuziale, della condivisione di una tenerezza tutta umana, di un talamo costruito nel tronco di un ulivo. Per citare di nuovo Albert Camus vorrei ricordare una sua bella definizione di essere umano: l’uomo, diceva il grande scrittore francese, è colui che si trattiene. Gli animali non lo fanno, se hanno fame mangiano, punto. L’uomo, unico, può farlo. Se vede un femore rotto non passa avanti ma perde il suo tempo, gesto inconcepibile nella logica della catena evolutiva, e quel femore lo cura, anche se è di un altro, anche se è di un nemico.
Questa è umanità, è libertà, è pietà. Enea, il pius Enea, è il più bello tra queste figure, ed è anche il più attuale di tutti questi personaggi, perché è un profugo. Pro-fugo, uno che fugge in avanti, per questo è affascinante Enea, perché si apre al futuro. Quello di Ulisse in fondo non è un viaggio, ma un ritorno. Mentre Enea sfida l’ignoto e cerca di ritrovare quelle radici che sono state ferite a morte.
Egli è un uomo che naviga nelle onde agitate del Mediterraneo e ha alle spalle l’inferno della sua patria in fiamme e davanti un futuro tutto nelle sue mani, da ricostruire. Ma non vuole perdere nulla del “buono” del suo passato e quindi si porta sulle spalle l’anziano padre Anchise, il “femore rotto”, perchè Anchise non è uno scarto ma, anzi, è la sua saggezza. Al tempo stesso Enea cammina mano nella mano con il figlioletto Ascanio. Le tre età della vita, il passato, il presente e il futuro. Enea e Ascanio camminano insieme verso un orizzonte, una speranza che scrutano nell’oscurità. Come diceva De Gasperi, «il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni». E i due, Enea e Ascanio, che corrono il rischio, vinceranno la loro scommessa, fonderanno Roma, daranno il via alla nostra storia, la storia che arriva fino a noi che oggi siamo qui. In questo bel convivio sulle sponde del Mediterraneo, non lontani da dove Palinuro, il mitico nocchiero di Enea cadde in mare di notte, tradito dal dio Sonno, mentre conduceva la flotta verso l’Italia. Lo vedo così questo nostro incontro, un modo per svegliarsi dal sonno che avvolge il nostro mondo, così potente e così fragile. Dobbiamo risvegliarci, e forse può aiutarci in questo il ruggito di un leone, quel Leone che fra qualche mese ripartirà alla volta di Nicea per ritrovare le sorgenti di un’unità perduta.