Hic sunt leones

Lo scandalo delle disuguaglianze in Africa

Women working in a field in Monguno, Borno state, Nigeria, on July 5, 2025. Twelve checkpoints ...
18 luglio 2025

di Giulio Albanese

Nello sfruttamento mondiale depredatorio dell’Africa, causa prima delle devastazioni economiche, ambientali e sociali del continente e delle sue emergenze umanitarie, trovano spazio e danno alimento impressionanti disuguaglianze interne. È quanto si evince dal rapporto, intitolato “La crisi delle disuguaglianze in Africa e l’ascesa degli ultra-ricchi”, che è stato pubblicato alla vigilia della riunione biennale di coordinamento dell’Unione africana tenutasi a Malabo, in Guinea Equatoriale, dal 10 al 13 luglio scorsi. I dati sono sconcertanti. Sono quattro i miliardari più ricchi dell’Africa che detengono attualmente una fortuna di 57,4 miliardi di dollari, ovvero più della ricchezza complessiva di 750 milioni di persone, ovvero metà della popolazione del continente.

Siamo di fronte a una gravissima sperequazione istigata e alimentata da politiche che avvantaggiano le élite e indeboliscono i servizi pubblici. Fati N’zi-Hassane, direttore di Oxfam per l’Africa, non ha dubbi sul fatto che «la ricchezza dell’Africa non è carente; viene sperperata da un sistema contraffatto che consente a una piccola élite di accumulare immense fortune, privando centinaia di milioni di persone dei servizi più elementari. Questa non è sfortuna. È un fallimento politico, e non è ammissibile. Deve cambiare». Il rapporto rileva inoltre che: «In soli tre giorni, una persona appartenente all’1 per cento più ricco dell’Africa guadagna quanto riesce a racimolare in un anno una persona della metà più povera del continente. Anche se perdessero il 99,99 per cento della loro ricchezza, i cinque magnati africani più benestanti sarebbero comunque 56 volte più ricchi della persona media del continente».

L’Africa è una delle macroregioni a livello planetario in assoluto più diseguali e presenta alcuni dei tassi di povertà più elevati al mondo. Quasi la metà dei 50 Paesi con il più alto tasso di diseguaglianza è africana. Oggi, sette persone su dieci che patiscono la povertà estrema nel mondo vivono in Africa, rispetto a solo una su dieci nel 1990. Nonostante il peggioramento della povertà e l’aumento delle disuguaglianze, i governi africani risultano i meno impegnati al mondo a colmare il divario: continuano a tagliare i bilanci destinati ai servizi pubblici quali istruzione, sanità e previdenza sociale, mentre applicano ai super-ricchi alcune delle imposte sul patrimonio più basse al mondo.

In media, il continente copre a mala pena solo lo 0,3 per cento del suo Pil in imposte sul patrimonio, una percentuale inferiore a quella di qualsiasi altra macroregione, molto meno, ad esempio, dell’Asia (0,6 per cento), dell’America Latina (0,9 per cento) e dei Paesi Ocse (1,8 per cento). Nell’ultimo decennio, l’Africa ha visto diminuire questa quota, già esigua, di quasi il 25 per cento. Per ogni dollaro che i Paesi africani raccolgono in imposte sul reddito delle persone fisiche e sul patrimonio, in media circa tre dollari vengono incassati in imposte indirette che aumentano la disuguaglianza, come l’imposta sul valore aggiunto. Le conseguenze sono drammatiche. Metà della popolazione africana vive in 19 Paesi in cui la disuguaglianza dei redditi è peggiorata o è rimasta invariata nell’ultimo decennio. Il 5 per cento più ricco dell’Africa detiene ora una ricchezza di quasi 4000 miliardi di dollari, più del doppio della ricchezza complessiva del restante 95 per cento della popolazione del continente.

È evidente che, andando avanti di questo passo, rischia di ridursi ad una pia illusione l’obiettivo che comunitariamente i Paesi membri si erano prefissanti: abbattere le disuguaglianze del 15 per cento nei prossimi dieci anni. Motivo per cui N’Zi-Hassane non ha dubbi. L’unica soluzione plausibile è «tassare i ricchi e investire nella maggioranza. Qualsiasi altra cosa è un tradimento. Se gli Stati africani vogliono seriamente riformare il sistema fiscale e praticare la giustizia, devono smettere di premiare una minoranza e iniziare una volta per tutte a costruire economie al servizio della maggioranza della popolazione.

Detto questo, sarebbe ingiusto fare di tutta l’erba un fascio, perché alcuni Paesi africani, da questo punto di vista, hanno dimostrato che è possibile cominciare ad essere virtuosi. Marocco e Sudafrica coprono rispettivamente l’1,5 per cento e l’1,2 per cento del loro Pil in imposte sulla proprietà, tra le aliquote più alte del continente. Alle Seychelles, il 50 per cento più povero della popolazione ha visto la propria quota di reddito aumentare del 76 per cento dal 2000, mentre l’1 per cento più ricco ne ha persi due terzi. Il governo garantisce inoltre un’assistenza sanitaria universale, un’istruzione gratuita e di qualità, e un solido sistema di protezione sociale per i più vulnerabili.

Secondo il rapporto di Oxfam, i Paesi africani potrebbero raccogliere 66 miliardi di dollari all’anno (il 2,29 per cento del loro Pil) tassando la ricchezza dell’1 per cento più ricco un punto percentuale aggiuntivo e il loro reddito di altri 10 punti percentuali. Ciò contribuirebbe a colmare le lacune nei finanziamenti per garantire un’istruzione gratuita e di qualità a tutti i cittadini, consentendo alle abitazioni civili e alle aziende di usufruire dignitosamente dell’energia elettrica. «Ogni africano merita di vivere dignitosamente. Quando a una manciata di miliardari viene permesso di accumulare ricchezze folli mentre milioni di persone sono intrappolate nella povertà, diventa impossibile negare l’evidenza: il sistema è corrotto e moralmente indifendibile», ha commentato N’Zi-Hassane.

Per obiettività è comunque importante considerare che ci sarà una ragione se esistono in Africa dei personaggi i quali, oltre a eludere le tasse, riescono ad accumulare fortune da capogiro. La verità è che stiamo parlando di uomini d’affari che, godendo di coperture politiche, sono spesso coinvolti in transazioni internazionali irregolari e di ricchezze impropriamente acquisite, con la complicità di gruppi stranieri beneficiari di prestiti fatti a questo o quel regime. E qui è fondamentale chiarire, una volta per tutte, il significato di questo processo perverso: la corruzione. Di cosa si tratta effettivamente? «La corruzione prevede sempre due complici: colui che intasca il denaro (inteso come soggetto richiedente sul mercato dell’illecito) e colui che lo consegna (il cosiddetto offerente)», osserva John Christensen, fondatore di Tax Justice Network, il quale sollevò già alcuni anni fa alcune obiezioni rispetto ad una visione manichea del problema per cui vengono sempre assolte quelle nazioni dove risiede il cosiddetto potere economico-finanziario. E sì perché, se il computo delle ruberie integrasse non solo la «domanda», ma «anche la dimensione dell’offerta», la graduatoria dei Paesi con un alto indice di corruzione sarebbe assai diversa da quella che viene pubblicata sui giornali e vedrebbe in testa — sostiene Christensen — Paesi con alti standard di democrazia come quelli occidentali.

Dunque, lungi da ogni retorica, la battaglia contro la corruzione deve farsi “culturale” e “civilizzatrice” tanto a Nord quanto a Sud del mondo, in ogni sfera del corpo sociale. Indubbiamente, solo una maggiore partecipazione dei cittadini alla gestione dello Stato e al controllo dell’uso delle risorse pubbliche potrà ridare loro fiducia nelle istituzioni che ad oggi garantiscono, con sfumature e valenze diverse, ben pochi spazi di vera trasparenza.

Una cosa è certa: non ci sono più scuse per rimandare la tassazione dei grandi patrimoni. Allo stesso tempo, occorre anche affrontare, in sede internazionale, la questione del loro arricchimento indebito attraverso potentati stranieri, più o meno occulti. L’attuale congiuntura internazionale in materia di diritto non sembra essere favorevole. Ma questo non impedisce la libertà di poterne parlare apertamente. I grandi player internazionali che intendono aiutare l’Africa non possono non tenerne conto, se davvero le loro affermazioni non sono solo ipocrite millanterie.