Viaggio in Perú sulle orme di Prevost
Roberto, il parroco “jovencito”

di Salvatore Cernuzio
A Trujillo l’aneddoto più ricorrente su Robert Francis Prevost è che il suo compleanno veniva festeggiato almeno quindici volte. Una con i confratelli agostiniani, una in parrocchia, una con una coppia di anziani, tante volte con le tante famiglie che assisteva. Tutti avevano piacere a trascorrere ore di festa con questo gringo magrolino venuto dagli Stati Uniti, dai toni gentili e i modi riservati, dalla intelligenza spiccata e l’intuito tipico di chi ha capacità di leadership.
«Un uomo della vicinanza ma anche dell’esigenza», lo ricorda l’agostiniano padre Juan. «Un uomo buono» dice María, sacrestana della parrocchia di Santa Ríta de Cascia. «Un jovencito (giovanotto) umile e gentile», le fa eco Ivonne.
Trujillo, capoluogo della regione La Libertad, nel nord del Perú, vanta ben undici anni insieme a colui che il mondo conosce oggi come Leone XIV. «È stato più tempo qui che a Chiclayo», scherzano — ma neanche troppo — gli abitanti, alludendo alla “rivalità” con la diocesi di cui Prevost è stato vescovo. A Trujillo il missionario di Chicago è arrivato nel 1987 ed è stato formatore dei futuri agostiniani del vicariato di San Juan de Sahagún, poi professore universitario e parroco. Soprattutto parroco, a Santa Ríta de Cascia e Nuestra Señora de Montserrat, con il soprattutto dato dall’amore profondo che i fedeli delle due parrocchie esprimono per quest’uomo da ben prima che venisse eletto sul soglio di Pietro.
Vicinanza, misericordia, tenerezza: di quelle che Papa Francesco indicava come le tre «caratteristiche» di Dio, «el padre Roberto» — come ancora lo chiamano i trujillani, subito correggendosi «disculpe, Papa León!» — si è fatto esempio concreto in mezzo alla popolazione di una città che, forse più delle altre del Sud America, manifesta la tensione tra ricchezza e povertà.
Trujillo è territorio, infatti, di contraddizioni. Architettoniche, con i suoi edifici antichi, una delle Plazas de Armas più grandi del continente, una cattedrale maestosa, e, a neppure 20 minuti di macchina, quartieri miserabili, con case scalcinate e distese di baraccopoli edificate sul fango. Contraddizioni urbane, tra gli stabilimenti balneari, attrattiva di turisti, e, di fronte, bancarelle di frutta, mini market desolati e bar che annunciano il “cafè italiano” ma con una F sola. Infine contraddizioni sociali, tra fiorenti imprese e alti tassi di criminalità, tra i super ricchi che si ritrovano la sera nei “club” a gustare whisky e cucina stellata, e, a qualche metro di distanza, per strada, in mezzo alle macchine bloccate dal traffico, uomini che tirano per mano i figli piccoli mentre provano a vendere buste di chifles e pop-corn.
Prevost tutto questo lo ha visto e lo ha vissuto, immergendosi fino alle fondamenta, come già anni addietro nel primo approdo a Chulucanas, della vita sociale ed ecclesiale di Trujillo. Dei suoi ricordi, oltre che dell’odore di mogano e delle piante da cortile, è impregnata la Casa dei professi agostiniani nella Avenida La Marina. I confratelli mantengono intatta la stanza di «Roberto» come se fosse una reliquia: la tonaca nera e la stola liturgica ricamata con lo stemma di sant’Agostino, appese a un’anta dell’armadio; il codice di Derecho canonico, edizione 1983, poggiato sul comodino di fianco al letto, tra una croce e l’icona della Madre del Buen consejo; quaderni aperti sulla scrivania, con appunti e lettere e la firma in corsivo dalla calligrafia minuta Robert Francis Prevost, OSA.
A mostrare la stanza è padre Alberto Saavedra che, in camicia a maniche corte e infradito — quelle che a Trujillo indossano tutti, a prescindere dalle strade e dal clima —, conduce pure nella cappella sottostante dalle pareti bordeaux. «Qui padre Prevost celebrava ogni giorno la messa», dice l’agostiniano, come a guidare in un tour museale: «Questa è la panca sulla quale sedeva a pregare, queste sono le vetrate importate dagli Usa».
Sui muri spicca una targa con una foto e la scritta: «Luis M. Prevost, bienhector, amigo y hermano». È un omaggio al papà dell’attuale Pontefice, benefattore della comunità in cui il figlio era maestro dei professi. Tra loro pure padre Alberto, il quale, però, si schermisce nel condividere ricordi personali: «Ci mandava sempre un biglietto d’auguri il giorno del nostro compleanno», dice stringato.
Un profluvio di aneddoti e memorie è invece padre Ramiro Castillo, vicario superiore degli Agostiniani del Nord del Perú. Sguardo che scruta, piglio da jefe (da capo), scioglie in un sorriso l’espressione quando, seduto alla fontana del cortile, mostra un mazzo di foto: «Sono preziose, eh!». Sono tutte immagini inedite del giovane Robert Prevost negli anni di Trujillo, durante le messe in chiese e parchi, in pellegrinaggi, nei cantieri delle parrocchie. «È una persona di profonda spiritualità agostiniana, dedita al suo lavoro, che ha trascorso tanto tempo nell’ascolto di noi giovani», racconta Ramiro, che di Prevost è stato figlio spirituale, allievo, amico. «Per me è una figura importante... Era il mio direttore spirituale», spiega mentre tira fuori una foto di sé stesso ventenne, con la testa riccioluta e una t-shirt bianca, abbracciato al futuro Pontefice. «Ha fatto la storia in questa città, ma anche nel cuore di quanti lo hanno conosciuto».
Soprattutto nella comunità di agustinos: «Chiamava continuamente per chiedere: “Stai bene in questa casa? Come va la salute? E la vocazione? Riesci a pregare?”. Era attento a tutti noi in generale, molto vicino, affettuoso. Gentile, ma sempre serio. E soprattutto calmo». Partecipava alle attività quotidiane «come uno di noi». E «come uno di noi», non disdegnava cene e compleanni condividendo torte, gelati o il tipico ceviche. «Guarda», dice padre Ramiro indicando un’altra foto del Papa con giubbotto leggero e maglia a righe: «Ha festeggiato il suo compleanno per 15 giorni perché la gente lo amava così tanto che lo invitavano in un posto e nell’altro».
Padre Juan Seminario, anche lui formato dall’allora maestro dei professi, sorride in un angolo. «Roberto non è un tipo che parla tanto per parlare; piuttosto, prima di parlare, medita e misura le parole, per correggere o affrontare una situazione ingiusta». Forte, soprattutto, il tratto spirituale: «La prima persona che vedevo in cappella la mattina presto era lui. Era “ansioso” di Dio». Ed «era esigente, eh! Da noi pretendeva soprattutto la formazione accademica», racconta il religioso. Confida di aver inviato al Papa un messaggio WhatsApp la sera dell’elezione. «Mi ha risposto… Gli ho scritto di essere lo stesso di sempre, lo stesso uomo di preghiera, di ascolto, di riflessione. E credo che Leone XIV sarà sempre padre Roberto, l’uomo del sorriso e dell’esigenza».
Messaggi — tanti messaggi — sono partiti anche dalle parrocchie di Santa Ríta e Montserrat. Entrambe dopo l’8 maggio hanno realizzato un grande poster con il volto del Papa, circondato da dediche, auguri, preghiere. Nella prima il poster è esposto in una teca di legno in un angolo della chiesetta dai toni predominanti dell’azzurro. Qui si celebrano messe e feste, come la serata di balli e canti organizzata in 24 ore in onore del «Papa peruano», i cui video hanno fatto il giro dei social.
Una decina di anni fa a Santa Ríta non c’era neppure il pavimento, spiega María Llopla, originaria di Cajamarca, 86 anni, sacrestana da tempo immemore. Padre Roberto se lo ricorda bene: «Un uomo nobile, un bravo parroco, disponibile per qualsiasi cosa gli venisse chiesta e ovunque si trovasse. Amava molto i bambini, rispettava le donne, con tutti era uguale. Eravamo suoi figli, suoi fratelli, la sua famiglia».
Anche María ha ospitato in casa uno dei famosi compleanni del “padre”. «Anch’io!», si inserisce Marlene Roselló. Ridacchia nel rievocare la richiesta di Prevost dinanzi alle fotografie di lui col cibo in mano o in bocca: «“Marlene cara — mi disse — per favore non far girare queste foto. Potrebbero pensare che sono un goloso!”». La donna cambia espressione nel ricordare la sera dell’Habemus Papam: «Non ci potevamo credere! Padre Roberto! Ma se lo abbiamo visto qui camminare!». Con gli altri parrocchiani si scambia le fotografie delle serate accanto al futuro Papa: «Tu c’eri qui? Ti ricordi? Questa ce l’ho anche io!». Alcune le ha scattate Jorge “Coco” Montoro che tiene in mano orgoglioso la «camara», la macchina fotografica personale dell’allora parroco Roberto che gli regalò prima di tornare negli Stati Uniti: «È antica, un po’ pesante, ma buona».
Se di regali si parla, il più significativo l’ha ricevuto Ivonne Leiva: un’intera casa. Vedova, mamma di quattro ragazzi, ha incontrato Prevost nel 1992, quando iniziò l’incarico di amministratore parrocchiale di Nuestra Señora de Montserrat. Ancora ricorda il primo impatto con quel “giovanotto”: «Ci aspettavamo un uomo adulto, anziano, coi capelli grigi; invece è arrivato un ragazzo coi jeans. Ci disse: “Chiamatemi, padre Roberto. Sono Robert, ma chiamatemi Roberto”». Il loro primo dialogo fu davanti a un piatto di frijolitos (fagioli) con pellejito (carne di maiale) e insalata: «È entrato e ha detto: “Che buon profumo!”. “Padre, glielo offro?”. “Sì, grazie, molto gustoso!”. Non si faceva problemi per una cucina diversa, accettava tutto».
«Era sempre paziente», racconta ancora Ivonne. «Se gli altri, ad esempio, si agitavano in una discussione, lui diceva: “Vado a bere un po’ d’acqua”. E si prendeva del tempo prima di tornare a rispondere». Ma la donna, soprattutto, non può dimenticare l’impegno del futuro Papa per farle concedere una casa all’interno del territorio parrocchiale. Si sposta gli occhiali per asciugare le lacrime, Ivonne, ripensando a quei momenti: «Ci ha sostenuto molto, permettendoci di stare qui. E ci ha fatto conoscere Dio, ha rafforzato la nostra fede. I miei figli con lui sono stati battezzati, hanno fatto i chierichetti, hanno ricevuto la Cresima. Ci ha confermato come famiglia nella fede».
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