«Politica e pensiero. Storie e personaggi dei partiti del Novecento» di Andrea Covotta

Mai recidere il filo
della continuità repubblicana

 Mai recidere il filo della continuità repubblicana  QUO-157
09 luglio 2025

di Giovanni Cerro

«La politica ha perso la sua influenza e il suo prestigio, l’antipolitica ha macinato applausi e consensi e noi ormai ci avviamo verso un mondo le cui sorti si decidono altrove. Diciamo che siamo passati da un eccesso all’altro, dal troppo al niente, o almeno al troppo poco. Andrea Covotta ha il merito con questo libro di gettare un ponte tra quell’Italia e questa. Ci conduce nei meandri della prima Repubblica e delle culture di allora: democristiani, comunisti, socialisti e chi più ne ha più ne metta. Sapendo già però come va a finire. E cioè fino all’esaurimento di quei filoni di pensiero che hanno dato forma alla modernizzazione del paese dopo la fine della guerra per poi arrendersi a un altro tipo di modernità. Quella nella quale, per l’appunto, abbiamo finito per immergerci». Con queste parole, Marco Follini introduce il bel volume che Andrea Covotta, giornalista e responsabile della Struttura Rai Quirinale, ha dedicato alle figure e ai momenti che più hanno inciso sulla storia dell’Italia del Secondo dopoguerra: Politica e pensiero. Storie e personaggi dei partiti del Novecento (Venezia, Marcianum Press, 2024, pagine 400, euro 23).

L’idea alla base dell’analisi di Covotta è che per i primi trent’anni di vita della Repubblica la riflessione e l’azione politica — elaborate e attuate da cattolici, comunisti, socialisti e liberali — siano state improntate a una forte e autentica spinta riformatrice e innovativa, che intendeva trasformare il Paese, modernizzandolo.

Dalla metà degli anni Settanta in avanti si sarebbe invece verificata un’inversione di rotta, radicalizzatasi nei decenni successivi e tuttora in corso. La politica avrebbe conosciuto un ripiegamento su sé stessa, divenendo autoreferenziale e contribuendo a paralizzare lo sviluppo non soltanto economico ma soprattutto sociale e civile del Paese. Tale degenerazione della politica risulterebbe particolarmente evidente negli scandali, nella crisi dei partiti e degli organi di rappresentanza, nella preminenza dell’effimero e del contingente sulle visioni a lungo termine, nella prevalenza dell’egoismo e dell’individualismo rispetto ai legami sociali, nella superiorità dell’immagine e dell’apparire sul discorso e sull’essere, nello scadimento dei linguaggi e dei comportamenti. La politica si sarebbe così trasformata in mera arte della conquista e della conservazione del potere, caratterizzata dalla più sfrenata competizione e dominata da leader, che cercano a tutti i costi di ottenere consensi. Governare non è più servire, ma molto più brutalmente comandare.

Il punto di svolta — ossia l’inizio del declino — viene individuato da Covotta nell’assassinio di Aldo Moro, episodio considerato un vero e proprio spartiacque della storia italiana recente. Con la sua proposta di allargare le basi democratiche dello Stato e con la sua speranza di inaugurare una politica dell’alternanza di governo, Moro era stato capace sia di interpretare i rilevanti cambiamenti sociali del tempo, senza inseguire gli umori della folla, ma cercando di governarli e orientarli, sia in grado di porre al centro della scena politica non la contrapposizione tra le forze partitiche, ma il loro dialogo in vista dell’accordo su interessi e obiettivi comuni.

Con la morte di Moro, viene meno uno degli ultimi «costruttori di equilibri politici», come li definisce Covotta. Il testimone del segretario della Democrazia cristiana fu raccolto, e messo a frutto da figure come Piersanti Mattarella, Vittorio Bachelet e Roberto Ruffilli. Tutti impegnati nell’ideazione e nell’attuazione di riforme strutturali, nel confronto leale e pacato con gli avversari politici, nel tentativo di trovare una soluzione alle ricorrenti crisi del sistema politico e istituzionale italiano. Tutti, non a caso, assassinati negli anni Ottanta: per mano della mafia il primo, delle Brigate Rosse gli altri due.

Leggendo Politica e pensiero si ritroveranno la caparbietà e la visionarietà di Alcide De Gasperi, il pragmatismo e la duttilità di Palmiro Togliatti, la saggezza e l’esperienza di Pietro Nenni, l’instancabile opera in difesa dei lavoratori di Giuseppe Di Vittorio, la vocazione meridionalista di Manlio Rossi-Doria, la passione civile di Enrico Berlinguer. Oltre naturalmente a Moro, al quale Covotta riconosce qualità ormai smarrite: la preferenza per i tempi lunghi della politica, la meticolosità del pensiero, la prudenza, la misura e il rigore nell’agire.

Covotta descrive poi fenomeni e processi di grande importanza per la storia del Paese, tra i quali la ricostruzione dalle macerie del fascismo e del Secondo conflitto mondiale, il rilancio economico e industriale, il processo di emancipazione delle donne, la stagione del terrorismo. Numerosi sono anche gli approfondimenti proposti dall’autore nel campo della cultura: dalla letteratura al cinema, dal teatro alla radio e alla musica. Covotta sottolinea in particolare il ruolo degli intellettuali, come Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, nella loro funzione di critici della società e della politica. Ampio spazio è dedicato anche allo sport: la rivalità tra Coppi e Bartali, la tragedia di Superga, le Olimpiadi di Roma del 1960, con la straordinaria vittoria nella maratona dell’etiope Abebe Bikila, solo per citare alcuni momenti trattati nel volume.

Dalla lettura emergono, inoltre, interrogativi che meriterebbero di essere affrontati in modo serio nel dibattito pubblico: è ancora possibile una politica riformatrice per l’Italia? C’è ancora posto per i cattolici in politica? Come si può dar vita a un progetto politico che riesca a combinare il governo della contingenza con la messa a punto di prospettive non illusorie per l’avvenire? Per iniziare a rispondere a queste domande è necessario, secondo Covotta, richiamarsi proprio alle culture e alle tradizioni politiche del passato e cogliere in esse i semi utili tanto per costruire una democrazia plurale, che possa dirsi davvero compiuta e matura, quanto per confrontarsi con le questioni del presente e del futuro prossimo.

Riferirsi al passato non significa però, per Covotta, dimenticare o ignorare gli errori e talvolta i misfatti di dirigenti, politici e amministratori dell’Italia che fu. Non vi è infatti traccia nel suo volume di mitizzazione del passato, né una descrizione dei tempi andati come un’età dell’oro perduta. Come nota giustamente Follini nella prefazione, l’analisi di Covotta «non deve apparirci come un tributo postumo ai nostri progenitori. Semmai come un ammonimento sui rischi che corriamo se scardiniamo la politica del pensiero, se riduciamo tutto a propaganda (o peggio a contumelia), se smarriamo il filo della nostra continuità repubblicana».