In Myanmar tutto (o quasi)

La testimonianza di un missionario: «Manca tutto. La comunità internazionale ha dimenticato le nostre sofferenze»
di Federico Piana
Se una fotografia scattata in una città del Myanmar lo scorso 28 marzo, giorno del potente terremoto che ha provocato migliaia di vittime e la distruzione di gran parte della nazione asiatica, fosse messa a confronto con una fotografia scattata oggi nella medesima città, ci si accorgerebbe di un fatto drammatico: a poco più di cento giorni dal sisma di magnitudo 7.7 che ha colpito soprattutto la regione del Mandalay, le strade apparirebbero ancora squarciate da solchi profondi, le case ed i palazzi ancora accartocciati su se stessi, la gente ancora accampata in luoghi di fortuna dove mancano i beni di prima necessità, perfino l’acqua. Ci si renderebbe conto che tutto, o quasi, è rimasto com’era.
A confermarlo ci sono i dati di Caritas International, organizzazione della Caritas tedesca, che da tempo opera in Myanmar: fino ad oggi, il 74% delle comunità non ha ricevuto alcun aiuto umanitario non solo per mancanza di fondi ma anche a causa della guerra civile che vede contrapposti governo e gruppi armati d’opposizione che per ritorsione l’uno contro l’altro bloccano i pochi camion di viveri che riescono a transitare cercando di affamarsi a vicenda.
Padre José Estêvão Magro, proprio ieri nominato direttore con decorrenza dal 1 gennaio 2026 dell’organizzazione assistenziale New Humanity International fondata dal Pontificio istituto missioni estere (Pime) per aiutare tutto il sud est asiatico, nei giorni scorsi ha percorso le vie di Mandalay e ciò che si è trovato davanti è stata una città disastrata, almeno per metà.
Il religioso racconta a «L’Osservatore Romano» che i resti di molte strutture sbriciolate dal sisma sono ancora sparpagliati sul terreno, che molte abitazioni implose per le scosse sono rimaste completamente abbandonate, che alcune case inagibili non sono state messe in sicurezza o perlomeno abbattute. «Le migliaia di famiglie che hanno perso la propria casa continuano ad essere ospitate nelle zone di accoglienza che sono state realizzate ai margini dei sobborghi cittadini» spiega.
Durante il giorno, questi uomini, donne e bambini escono dai campi in cerca disperata di cibo, in molti non hanno nemmeno le forze per poter andare a rimettere in sesto l’abitazione nella quale prima vivevano. «Alcuni lo fanno — dice padre Magro — ma sono pochi privati cittadini. Per il resto, non c’è un’azione pubblica mirata alla ricostruzione della città. Non c’è interesse nei confronti della comunità civile. Quello che si vede è solamente la volontà di sanare i palazzi pubblici crollati nella capitale, Naypyidaw. A Mandalay c’è una grande desolazione».
Nei campi d’accoglienza, tra una baracca di legno ed una tenda di plastica, i volontari delle associazioni umanitarie cercano di intrattenere i bambini con lezioni e giochi nella speranza di poter allontanare, anche solo per un attimo, il pensiero di essere sfollati.
Quanti siano gli abitanti di queste favelas ufficialmente nessuno lo sa. Il missionario ha provato più volte a chiedere alle autorità dei dati certi ma è stato tutto inutile: «Non mi hanno saputo dire nemmeno quanti campi sono stati allestiti dopo il terremoto. Perché sono spuntati come funghi: in un terreno di un monastero, nel compound di una chiesa, in un punto fuori mano. Addirittura, ci sono persone che hanno occupato dei palazzi fortunosamente rimasti in piedi: negli appartamenti dove prima viveva in media un nucleo familiare ora ne vivono tre o quattro».
Viveri e medicinali sono i beni di prima necessità di cui gli sfollati hanno tremendamente bisogno e la Chiesa locale cerca di aiutare come può: «Lo facciamo mettendo a disposizione tutto ciò che arriva dall’estero. L’arcidiocesi di Mandalay non esita a condividere pacchi di cibo anche se è stata profondamente ferita dalle scosse che hanno distrutto parrocchie, conventi e scuole cattoliche».
Quello che rattrista ancora di più il cuore di padre Magro è soprattutto un’amara certezza: «La comunità internazionale ha dimenticato le sofferenze del Myanmar. Forse il motivo è che tutto ciò che sta accadendo qui riguarda solo il popolo birmano e non ha ripercussioni esterne. Ma qui si continua a morire lo stesso».