Storia di Sylvia, ex prostituta che aiuta ragazze a uscire dalle reti criminali

In strada
per liberare le donne
con l’incoraggiamento
del “padrecito”

 In strada per liberare le donne  con l’incoraggiamento del “padrecito”  QUO-154
05 luglio 2025

«A 11 anni sono stata violentata. Fino a 25 vittima di tratta umana...». Sylvia certamente questa vita non la voleva, ma da questa vita, sfigurata dai drammi dell’abuso sessuale e della prostituzione imposta, ha saputo trovare coraggio, forza e anche tracce di gioia grazie all’opera che svolge, insieme ad alcune suore, per evitare che altre donne subiscano quello che ha subito lei per oltre 15 anni.

«Silvita tu eres valiente!» ripeteva l’allora vescovo di Chiclayo, monsignor Robert Francis Prevost, a questa donna alta poco più di un metro e quaranta, dai modi impacciati e lo sguardo luminoso. Cinquantadue anni, ha la voce roca, le mani piccole e nodose che puliscono svelte la macchinetta del caffè, una frangetta che restituisce un’aria sbarazzina al viso dai tratti spigolosi. Una donna bella, dignitosa, che ci tiene a cambiare i vestiti e indossare, invece, qualcosa di più carino «per l’intervista col Vaticano».

È quasi timorosa, Sylvia Teodolinda Vázquez, quando apre la porta della sua casa a Pomalca, quartiere alla periferia di Chiclayo. Una delle tante abitazioni dai tetti in lamiera e le pareti scalcinate, affacciate su strade prive di pavimentazione solcate da bici e mototaxi. Sulle mura arancioni dell’edificio è appeso un cartello che annuncia la vendita di birra fresca. È l’attività da cui lei trae un minimo di reddito per vivere e pagare l’università al figlio diciottenne: «Voglio che studi, che si faccia una vita». Il lavoro vero per Sylvia, tuttavia, è un altro: andare tre volte al mese di sera in pub, discoteche, strade e locali, insieme alle Hermanas Adoratrices, e raccogliere donne e ragazzine, peruviane ma soprattutto migranti venezuelane, ecuadoriane e colombiane, intrappolate nella rete della tratta di esseri umani. Le aiuta a cambiare vita o si trova a doverle convincere a cambiare vita, visto che molte “scelgono” di seguire la via del guadagno facile a spese del proprio corpo «perché sono madri di famiglia» e non sanno come andare avanti.

Sylvia sa cosa significa vivere in trappola. L’ha provato da bambina, sballottata per anni tra Lima, Piura, Trujillo, Olmos, sfruttata sessualmente in bar e locali simili a “bordelli”, privata dei documenti, minacciata di ritorsioni contro la sua famiglia e la figlia appena nata, se avesse provato a scappare o denunciare. Aveva 22 anni quando in un bar l’ha avvicinata una religiosa col saio: suor Dora Fonseca. Grazie a lei e ad altre hermanitas, Sylvia è uscita dal giro, ha trovato abiti puliti, un tetto e un lavoro. Le suore l’hanno portata nella Casa, rifugio costruito da Famiglia Vincenziana e Caritas, dove negli anni sono passate oltre cinquemila persone. Lì le trabajadoras sexuales vengono avviate allo studio di cosmetologia, cucito, informatica, pasticceria, artigianato. E viene fornito loro supporto per documenti, pratiche burocratiche, cure sanitarie, abbigliamento dei figli.

Da quando le ha conosciute, Sylvia non si è mai staccata dalle suore. Ci ha messo anni per liberarsi, dalla tratta e dalla paura, ma ce l’ha fatta. Nel rifugio di Chiclayo va cinque volte a settimana e tiene conferenze per la prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili. Il servizio è configurato da anni nella più ampia missione della Comisión de Movilidad Humana y trata de personas, organismo nato nella diocesi di Chiclayo su impulso del padrecito, el monseñor Prevost, che due anni dopo il suo arrivo nella cittadina nord peruviana, nel 2017, ha espresso preoccupazione per l’aumento di traffico sessuale in città dovuto al massiccio afflusso di migranti venezuelani. «Sapeva delle suore, sapeva della casa, ci convocò per chiedere aiuto e unirsi alla Commissione sulla Mobilità Umana. Gli fornivamo resoconti mensili sul nostro lavoro. E lui aiutava. Aiutava anche a fare la spesa per le ragazze».

Non solo: l’allora vescovo celebrava Messe o organizzava ritiri con le T.S. (trabajadoras sexuales) «per ascoltarle, dare una parola, incoraggiarle ad avviare attività per mantenersi». Sylvia si commuove mentre condivide questi ricordi, seduta nel suo cortile col sottofondo del cinguettio dei canarini e del miagolio di un gatto accovacciato su un muro dissestato. «Papa León — sospira — è stato sempre gentile con me, mi rispetta molto».

«Scusate», ripete più volte la donna. Chiede di fare una pausa per mettere in ordine i panni umidi stesi su un filo o i giochi lasciati in giro dal nipotino di 8 anni. «Ahí, quello» esclama, ricordando la sera dell’8 maggio quando lei guardava la tv in attesa del nuovo Papa e il piccolo ha lanciato un trompo (una trottola) direttamente sullo schermo. Un buco e la tv che si è spenta sull’Habemus Papam. «Aspettavo, aspettavo e non sono riuscita a vederlo. Poi mi hanno detto: “El padre Roberto!”. Mi sono commossa! Sono uscita gridando dalla vicina, non ci credeva che lo conoscevo. Le ho mostrato le fotografie! Padre Roberto! Ho pregato che Dio lo illumini e gli dia vita e salute ovunque si trovi».

A Papa León, Sylvia manda un abbraccio: «Oh, Diosito me lo benedica sempre!», dice poggiando una mano sul cuore. È il punto in cui conserva le parole che l’attuale Pontefice le disse una volta: «Silvita, sei una donna meravigliosa, coraggiosa. Continua così, insieme faremo del bene». (salvatore cernuzio)