Un sarto

di Giovanni Ricciardi
Colpisce, nel viaggio di Dante per i tre regni ultramondani, come la rappresentazione dell’eterno sia continuamente accompagnata da similitudini che hanno a che fare con la vita terrena. Sono più di cinquecento quelle presenti nell’arco dell’intera Commedia.
Molti ricorderanno l’ingresso in scena di Paolo e Francesca, nel V dell’Inferno, che “all’affettuoso grido” di Dante si avvicinano “quali colombe dal disio chiamate” e la profonda emozione che il poeta prova al punto da svenire e cadere a terra “come corpo morto cade”.
Vero è che più s’avvicina alla meta, cioè alla visione di Dio nell’ultimo canto del Paradiso, più le similitudini si fanno sottili, lievi, evocando quasi sempre immagini di luce ed armonia celeste. Ma fino all’ultimo Dante rimane “poeta del mondo terreno”, secondo la felice definizione di Erich Auerbach. E proprio nell’ultimo tratto del cammino, quando san Bernardo lo introduce alla contemplazione della Rosa dei beati che siedono nei posti a loro destinati in Paradiso, in una delle ultime similitudini del poema, viene evocata una scena che per un istante, dal bel mezzo dell’Empireo, ci riporta a terra, alla nostra condizione quotidiana.
Sì, perché Dante, poco prima di unire il suo sguardo “col valore infinito” di Dio, sembra preso dal sonno, quasi non riesca a reggere il peso immenso di quella promessa di luce sfolgorante.
Bernardo se ne accorge mentre gli descrive nomi e volti dei beati intorno al trono dell’Altissimo e all’improvviso dice: «Ma perché il tempo fugge che t’assonna / qui farem punto, come buon sartore / che com’elli ha del panno fa la gonna» (Paradiso 32, 139-141).
Parafrasando, il santo di Chiaravalle, ricordandosi della stoffa della natura umana, del suo essere soggetta alla fugacità e al sonno, decide d’interrompere la descrizione del Cielo, e con un salto dall’eterno al temporale si paragona a un buon sarto, che deve fare di necessità virtù e cucire una gonna tenendo conto della misura del tessuto che ha a disposizione.
Nulla va perduto dell’esperienza umana in una storia di grazia. Vengono in mente le innumerevoli botteghe di certi presepi napoletani, in cui ad assistere al mistero della Presenza carnale di Cristo in mezzo agli uomini sono gli uomini nella loro carnalità, che hanno sonno dopo una lunga giornata di lavoro. Qua un maniscalco, là un pastore, altrove un sarto con ago e filo e il suo tessuto sulle ginocchia. E così anche nel Vangelo. Anche sotto la Croce, a un certo punto, gli occhi di Giovanni, nel compiersi della storia della salvezza del mondo, cadono su una tunica e spiegano nel dettaglio che «quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo». Ed era, a raccontare quella scena, l’Evangelista che nella notte del Getsemani non era stato capace di vegliare con Gesù, ma «perché il tempo fugge che t’assonna» si era addormentato, e non aveva ricevuto dal Maestro neppure un accenno di rimprovero, forse solo la constatazione della Sua inevitabile solitudine di quell’istante.
Eppure lo aveva visto già trasfigurato, insieme a Pietro e a Giacomo, e anche lì il Vangelo, per descrivere il fulgore delle sue vesti (forse quella stessa tunica?), usa una similitudine in un sermo humilis quasi sconcertante: «Nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche».
Anche Bernardo dunque indulge al peso di quel “fratello asino” che è il corpo dell’uomo, ben sapendo quanto sia tenuto in considerazione da colui che scelse d’incarnarsi per aprire agli uomini la porta del Cielo, come anche è chiamata Maria nella preghiera della Chiesa. «Dormire, morire, sognare, forse» diceva Shakespeare: ma più che il sogno, la realtà di ciò che presto il poeta (Paradiso 32, 142-145) e — noi con lui un giorno — spera di vedere con i suoi stessi occhi di carne: «e drizzeremo gli occhi al primo amore / sì che guardando verso lui, penetri / quant’è possibil per lo suo fulgore».