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Il finale in un fiore

 Il finale in un fiore  QUO-152
03 luglio 2025

di Maurizio Rampa

La società di cui una volta facevo marginalmente parte, con i suoi meccanismi e i suoi automatismi, mi spaventa sempre di più. Ho l’impressione che si tratti di una società estremamente polarizzata. Da un lato vi è un individualismo dominante, che demonizza le relazioni, diffonde la solitudine e vive all’insegna della superficialità e dell’effimero. Nulla ha più valore all’infuori di me, di quello che posso ottenere da questa vita in questo momento. Dall’altro lato ci sono piccoli gruppi reazionari di gente impaurita, arroccata nelle proprie piccole bolle di confort e sicurezza. Persone sempre sorridenti eppure armate fino ai denti, pronte a escludere chiunque provi a destabilizzare i loro piccoli angoli di paradiso artificiale. Esistiamo solo noi, il mondo lì fuori non ci merita, nel nostro reame di specchi tutto è più bello e ci piace ammirare la nostra bellezza sempre di più. Un punto e un cerchio, ma sempre forme chiuse, definite, esclusive. Per entrambe le categorie il male più grande sono le relazioni. Che si tratti di famiglia, amici, amore, lavoro, la relazione è l’elemento che sta scomparendo dalla nostra società. Tra l’individualista, la setta e tutti i gradi intermedi che i rispettivi estremi esprimono, deve invece poter esistere l’individuo libero. L’individualista è schiavo di sé stesso, il gruppo è invece schiavo delle regole istituite per garantire la propria identità, la propria piccola isola di confort. Entrambe le parti escludono una vera relazione perché una vera relazione è possibile solo tra individui liberi, disposti a rinunciare a sé stessi, proprio perché diversi. Gli individualisti non si incontrano, perché non possono concepire l’esistenza dell’altro. I gruppi riconoscono l’esistenza di altri gruppi, ma non si incontrano mai, perché se rinunciassero alla loro identità smetterebbero di esistere entrambi. Incontrare l’altro significa rinunciare a una parte di sé stessi, significa rinunciare a capire e cominciare ad amare. E l’amore è possibile quindi solo tra due individui, con un volto e una storia unici. L’amore ha bisogno di un volto e un volto esiste sempre per l’altro, un altro diverso da me. I gruppi, così come gli individualisti, non possono amare perché non hanno un volto. Un individualista non ha un volto perché non riconoscendo l’altro rifiuta di essere visto da occhi diversi dai suoi. Un gruppo non ha un volto perché continua a guardare sé stesso riflesso nello specchio degli altri. E così oggi la nostra società per difendersi dalla relazione l’ha resa malata. Se si guarda il web o si ascoltano le conversazioni per strada, una relazione sana oggi non può esistere. Sono tutte malate. Se hai bisogno di qualcuno, significa che sei dipendente. Se fai qualcosa per qualcuno, significa che ti stai annullando. L’unico valore celebrato di una relazione di oggi è lo spazio che l’altra persona ci deve lasciare per noi stessi. Importante, sì. Da mettere al primo posto? No. Io penso invece che le relazioni malate non esistono, che le relazioni siano sempre buone, anche quando fanno male, anche quando sono squilibrate, anche quando sono infantili o pesanti, o tristi, o morbose. Perché ci salvano da noi stessi, fanno emergere i pregi e i difetti, ci permettono di cambiare, ci permettono di perdonare, ci permettono di vivere una vita che ha senso, anche se può fare male. Cosa ne sarebbe oggi di un film come Luci della città, probabilmente il film più bello mai fatto? La storia di un vagabondo che fa tutto per una fioraia cieca che neanche lo vede, che neanche sa chi sia, e che anzi lo scambia proprio per quello che non è: un ricco signore della borghesia. Era malato il vagabondo di Chaplin? Era pazzo? No. Era semplicemente una persona che non aveva paura di perdere sé stessa. E infatti nel finale più bello di tutti viene riconosciuto, il suo volto è visto finalmente dagli occhi una volta ciechi della fioraia.