
Nelle missive raccolte nell’antologia — oltre sessanta e per la maggior parte indirizzate alla moglie dal marzo 1927 all’ottobre 1928, prima da Regina Coeli e poi dalla clinica dove venne trasferito a causa della salute precaria — De Gasperi insiste anzitutto sulle difficoltà della vita carceraria
di Giovanni Cerro
Sono da poco passate le 23 dell’11 marzo 1927 quando Alcide Gasperi e la moglie Francesca Romani vengono fermati alla stazione di Santa Maria Novella, a Firenze, mentre si trovano su un treno che dovrebbe condurli a Trieste. L’ordine di cattura è stato emesso dal capo della polizia fascista, Arturo Bocchini, preoccupato che l’ex segretario del Partito popolare italiano, dimessosi dal suo incarico nel dicembre 1925, possa trovare rifugio all’estero, come era avvenuto per altri antifascisti. Non è la prima volta che il regime si interessa a De Gasperi, nella stretta repressiva che segue l’assassinio di Matteotti: già nella notte tre il 6 e il 7 novembre 1926 il leader trentino era stato sottoposto, insieme al fratello Augusto, sindacalista, a una sorta di processo politico da parte delle autorità fasciste, da cui era uscito turbato e calunniato ma non vinto. Di lì a poco, il Ppi sarebbe stato sciolto per aver svolto «attività contraria all’ordine nazionale dello Stato».
Dopo il fermo, De Gasperi e la moglie sono tradotti in carcere a Roma. Qualche giorno più tardi, Francesca Romani viene rilasciata, mentre De Gasperi viene trattenuto a Regina Coeli e rinviato a giudizio con l’accusa di aver tentato di espatriare clandestinamente per motivi politici. A difenderlo è l’avvocato Filippo Meda, già deputato al Parlamento per il Ppi. Il processo di primo grado si conclude il 28 maggio con la condanna da parte del Tribunale penale di Roma a quattro anni di carcere. In appello la pena è ridotta a due anni e sei mesi per il riconoscimento delle circostanze attenuanti; la Cassazione, infine, conferma la condanna. Dopo qualche mese, a causa di gravi problemi di salute all’apparato gastrointestinale, De Gasperi viene trasferito prima al Policlinico, quindi alla Clinica Ciancarelli, in via Morgagni, dove rimarrà “recluso” fino al riconoscimento della grazia da parte del re nel luglio 1928. Finita la prigionia, continuerà a essere oggetto dell’occhiuta sorvegliata della polizia fascista. Dal 1929 comincerà a lavorare presso la Biblioteca Vaticana. Chi volesse approfondire il periodo della detenzione, una fase non molto conosciuta della vita di De Gasperi, ma determinante per la sua esistenza e insieme per la sua successiva carriera politica, può ora leggere le Lettere dalla prigionia, 1927-1928 (Bologna, Marietti1820, 2025, pagine 200, euro 19), pubblicate in una nuova edizione a cura della Fondazione De Gasperi di Roma, con un’introduzione di Angelino Alfano, presidente della stessa Fondazione.
Nelle missive raccolte nell’antologia — oltre sessanta e per la maggior parte indirizzate alla moglie — De Gasperi insiste anzitutto sulle difficoltà della vita carceraria. Difficoltà sia materiali, come la scarsa pulizia delle celle, infestate di cimici, il caldo opprimente del periodo estivo, la scarsità del cibo; sia di carattere morale. Forte è, infatti, il senso di prostrazione e di umiliazione che pervade i detenuti: «Una volta entrati in questo ingranaggio, il tempo passa lentissimamente e gli uomini affaccendati che stanno fuori di noi non sanno che noi lo contiamo minuto per minuto». Di fronte a queste gravi privazioni e all’immobilismo del mondo carcerario, De Gasperi si augura che anche i docenti di diritto e i legislatori possano sperimentare direttamente le condizioni delle prigioni, prima di discettare di teorie giuridiche e di discutere ed emanare leggi in Parlamento: «Come si può», si domanda, «misurare la pena se non la si conosce?». Non mancano, poi, le critiche verso il regime, espresse ovviamente tra le righe al fine di aggirare la censura. De Gasperi osserva, ad esempio, le differenze tra la prigionia subita a Innsbruck nel 1904 per aver partecipato alle manifestazioni studentesche per la richiesta dell’apertura di una facoltà di Legge in italiano e quella attuale: vi era allora la speranza di ritornare libero per poter riprendere con rinnovato slancio le battaglie in favore dell’Italia, ora invece si sente abbandonato e perseguitato dalla sua stessa patria, un fatto di cui non si capacita e che gli appare «troppo grave». Ancora, in una lettera di metà giugno del 1927 commenta con un misto di frustrazione e rabbia le motivazioni della condanna, che rimarcano il primato degli interessi dello Stato e della nazione — dello Stato e della nazione fascisti, s’intende — rispetto alla libertà dell’individuo: «Mi sono cascate le braccia, mia diletta; se questo Concetto fondamentale della ragione di Stato soverchia così tutti gli altri, che vuoi ormai sperare? Io mi preparo da lungo ormai al peggio».
In questa drammatica situazione, a consolarlo vi sono la fede, che rimarrà sempre salda, la preghiera, che lo accompagnerà quotidianamente, e l’amore, altrettanto incrollabile, verso la moglie e le figlie Maria Romana e Lucia (Cecilia e Paola nasceranno più tardi). Ma anche il pensiero dei paesaggi trentini e della semplicità della vita in Valsugana, così come, quasi per contrasto, l’immagine della «secolare grandezza» di Roma: «Ora sono rinchiuso in un cubicolo e non posso vedere, o Roma, né il tuo cielo, né i tuoi monumenti. E tuttavia ti amo, come amo l’Italia, sognata fin dagli anni giovanili e si dissecchi la mia lingua se dirò male di te, o mia patria diletta». La Roma antica e la Roma dei papi: particolarmente caro è il ricordo della benedizione ricevuta da Leone XIII — il «grande Leone», come lo chiama — la prima volta che visitò la capitale nel 1902. Speciale consolazione gli offrono le sue vastissime letture, che comprendono la Bibbia, soprattutto i Salmi e l’Ecclesiaste, l’Imitazione di Cristo, le Confessioni di Agostino, libri di storia, romanzi e racconti di grandi autori, tra i quali Manzoni, Balzac, H ugo, Dostoevskij, Maupassant. È impossibile infine non notare la passione di De Gasperi per la Commedia: non c’è lettera che non contenga citazioni o che non evochi episodi del poema dantesco.
L’esperienza carceraria lo incoraggia a dar valore alle piccole cose e a rafforzarsi nella convinzione che l’essere umano non è fatto per stare in solitudine, ma per vivere in società; non è per il «monologo», come si esprime lo stesso De Gasperi, ma «per il dialogo, per il discorso». Il carcere è anche il luogo che gli offre la possibilità di riflettere sui rapporti di potere esistenti e su come questi possano essere scardinati, a favore dei «figli del popolo» e della «povera gente»: se solo ciascuno potesse spogliarsi dalla propria funzione e dal proprio ruolo, come sarebbero differenti le relazioni tra le persone! Le dittature, sottolinea poi De Gasperi, possono senza dubbio controllare e reprimere le azioni dei singoli, ma non possono cancellare del tutto i pensieri e le idee, come testimonia un episodio a lui accaduto in carcere: «Un giorno, con uno spillo di sicurezza ch’era sfuggito per miracolo alle infinite perquisizioni corporali, avevo inciso sulla bianca parete della cella in lettere maiuscole così: Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur («Beati quelli che piangono perché saranno consolati»). E in un altro cantuccio avevo incominciato ad incidere l’altra beatitudine: “Beati quelli che hanno sete della giustizia”. Ma la guardia attraverso lo spioncino mi aveva visto ed era corsa a denunciarmi. Il sottocapo fu generoso e si accontentò di obbligarmi a raschiare la parete col manico del cucchiaio di legno. Ma non si raschiano dal cuore, quando ci sono incise fino dall’adolescenza e quando le ricordavo anche in prigione non era tanto come personale conforto, quanto come il riassunto di un programma del quale era intessuta la vita, programma che mi aveva imposto di lavorare per l’elevazione degli umili e per la giustizia e per i diritti — diritti relativi, lo so — popolari». Benché sia trascorso quasi un secolo da quando sono state scritte, le lettere di Alcide De Gasperi in carcere — prigioniero del fascismo — ci ricordano quanto sia importante agire con coerenza, rimanendo fedeli ai propri ideali, contro tutte le avversità.