
di Guglielmo Gallone
Tre scuole e quattro dormitori abitati da 350 giovanissimi di origine indigena: è questo il patrimonio che gli agostiniani amministrano all’interno della struttura Villanova High School in Susweni, localizzata a Maripi, un quartiere di Manokwari, capoluogo della provincia occidentale della Papua. Un territorio difficile, come racconta fin da subito ai media vaticani monsignor Bernardus Bofitwos Baru, vescovo di Timika: «Il problema principale della Papua è la giustizia. Le politiche governative, purtroppo, ancora faticano a fermare la violenza. Il nostro auspicio è che la Papua diventi un luogo in cui tutti possono vivere, studiare, dialogare».
Monsignor Baru racconta questa realtà con ancora più enfasi perché, oltre a essere figlio di questa terra, è il secondo nativo della Papua a ricevere l’ordinazione episcopale e il primo agostiniano ad essere nominato vescovo in Indonesia, come deciso da Papa Francesco lo scorso 8 marzo. Il contesto difficile nel quale si trova è confermato dalla cronaca: a giugno oltre 98.523 papuani risultano sfollati internamente a causa del conflitto armato tra le forze di sicurezza indonesiane e l’esercito di liberazione nazionale della Papua occidentale (Tpnbp). Il conflitto affonda le radici in una serie di motivazioni geografiche, etniche e storiche. La Papua occidentale è la parte ovest, attualmente controllata dall’Indonesia, dell’isola della Nuova Guinea — la seconda al mondo per estensione dopo la Groenlandia. L’isola, culturalmente legata alla Melanesia, è abitata da popolazioni indigene di origine melanesiana, in larga parte cristiane (protestanti e cattolici) e legate alle tradizioni tribali. Dopo l’indipendenza dell’Indonesia nel 1949, la Papua occidentale rimase sotto controllo olandese, che ne rifiutò inizialmente l’integrazione a Jakarta, ritenendo l’area priva di legami con l’arcipelago. Nel 1962, però, le Nazioni Unite negoziarono il New York Agreement, che affidò temporaneamente l’amministrazione della regione all’Indonesia, in attesa di un referendum di autodeterminazione, svoltosi nel 1969 come “Atto di libera scelta” ma ampiamente contestato. Da allora, gli scontri fra esercito e movimenti indipendentisti papuani sono frequenti, alimentati oggi dagli interessi economici legati al gas, al legname, all’olio di palma e, soprattutto, alle più grandi miniere di oro e di rame al mondo.
«A causa di questa situazione, tutti i papuani vedono nella Chiesa un ospedale — racconta ai media vaticani padre Jan Pieter Fatem, vicario uscente degli agostiniani in Papua — cioè, una casa di speranza in cui cercare la medicina dello stare insieme. La Chiesa ha fatto molte cose qui e tutti i papuani hanno tanta fiducia in noi». In particolare, l’opera degli agostiniani si concentra su istruzione, sanità, sostegno alle comunità rurali e, soprattutto, su programmi di tutela dei diritti umani. Arrivati in Indonesia nel 1542 grazie ad una spedizione spagnola e sbarcati a Papua nel 1953 grazie ad un frate olandese, gli agostiniani sono attivi tra Senpi, Ayawasi, Sisweni, Aimas, Monokwari e Sorong, sorretti dal vicariato di Papua istituito nel settembre 2013. Due anni più tardi, i missionari agostiniani riprendono la gestione di un asilo aperto in passato a Maripi e la Villanova High School, così da fornire ai giovani un intero ciclo di formazione e accedere all’università, opportunità fino ad oggi impensabile per i papuani.
«Sveglia alle 6, poi preghiera, colazione alle 7 e le lezioni frontali, cui seguono il pranzo nel dormitorio e le attività pomeridiane che vanno dal lavorare la terra fino allo sport»: il programma che ci descrive padre Jan Peter è fitto, ma non è privo di difficoltà quotidiane. Se monsignor Baru sottolinea quelle legate all’educazione e alla mentalità moderna perché «oggi con la tecnologia è più difficile educare e accompagnare i giovani, sia nei dormitori sia nelle scuole», padre Jan evidenzia quella che ritiene «la nostra difficoltà principale: trovare soldi. Tutti i nostri studenti vengono dalla giungla e da famiglie indigene, spesso incapaci di pagare la scuola. Lì fuori ci sono anche tanti ragazzi che non riescono ad accedere ai nostri corsi: abbiamo bisogno di supporto materiale».
In questo senso, padre Jan ringrazia «con cuore sincero la Fondazione Agostiniani nel mondo, che ci fornisce un supporto unico e prezioso». Un impegno confermato ai media vaticani da Maurizio Misitano, presidente dell’omonima Fondazione: «Abbiamo visitato la Papua occidentale per la prima volta nel gennaio 2016. È apparso fin da subito che il lavoro da fare era tanto ma, su indicazione dei nostri frati, abbiamo deciso di sviluppare il loro programma educativo e di supporto alle famiglie sfollate a causa degli scontri fra l’esercito indonesiani e i gruppi di indipendenza». Grazie alla Fondazione, prosegue Misitano, «si sono costruite diverse aule della Villanova High School di Manokwari. Prosegue anche il programma di prima assistenza agli sfollati. Le sfide sono tante, ma con il lavoro instancabile dei frati agostiniani e i fondi raccolti grazie ai nostri donatori, possiamo proseguire col nostro lavoro».
Una sfida all’insegna della missionarietà e dunque del pontificato di Robert Francis Prevost che, nel 2003, in qualità di priore generale degli agostiniani, venne a visitare la missione in Papua occidentale. «È stato con noi quasi due settimane — ci racconta padre Jan Pieter Fatem — ha visitato il popolo papuano e, soprattutto, è andato nelle periferie per conoscere le persone. Un giorno prese addirittura un piccolo aereo locale per andare in una località priva di elettricità. Un’esperienza che non dimenticherò mai». Oggi quell’eredità viene raccolta dall’impegno quotidiano di una Chiesa che è punto di riferimento per tutti i popoli indigeni. «Qui parliamo oltre 250 dialetti diversi, i protestanti sono venuti coi colonizzatori tedeschi e i cattolici con quelli olandesi — ci racconta monsignor Baru — eppure, oggi stiamo notando un cambiamento: i giovani collaborano di più, vogliono proteggere la nostra terra e la nostra eredità. Quando è stato eletto Papa Leone XIV tutti hanno espresso affetto e gratitudine». Monsignor Baru conclude dunque con l’auspicio che questa unità riesca a «farci trovare la strada migliore, a partire dal Vangelo, per vivere come fratelli. Il mio desiderio è che la gente comprenda quanto sia urgente porre fine alla violenza all’insegna di un percorso duraturo fatto di pace, unità e giustizia. La Papua è piena di luoghi meravigliosi. Sperare in una pace, qui, è obbligatorio».