
Da settantasette anni e qualche mese gli italiani vivono in una Repubblica democratica “fondata sul lavoro”. Sappiamo bene, purtroppo, che l’affermazione forte e impegnativa contenuta nell’articolo 1 della Carta Costituzionale non trova gran riscontro nella realtà quotidiana del Paese. Questo stato generalizzato di crisi non può non pesare con maggiore forza sulla vita delle oltre 62.000 persone che sono in carcere, per le quali il lavoro riveste una funzione fondamentale nel processo di risocializzazione e riabilitazione.
La Costituzione dice chiaramente che in carcere si deve puntare alla rieducazione per il reinserimento. Perché ciò si concretizzi, il legislatore ha perciò definito alcune procedure che operano su tre livelli: la sensibilizzazione e la ricerca di opportunità lavorative, l’osservazione del detenuto da parte di tutte le componenti professionali presenti in carcere, l’inserimento sul luogo di lavoro dentro o fuori dal carcere, sia come dipendente che come volontario. Tutto ciò nei tempi previsti dalla legge, dopo un prefissato periodo di detenzione e in accordo con la magistratura di sorveglianza.
In particolare, l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, conosciuto anche come “lavoro esterno”, consente al detenuto di riprendere con gradualità la “vita” fuori dal carcere e avviarsi verso il fine pena. Naturalmente vanno rispettate regole anche rigide: che riguardano tra l’altro il percorso, i mezzi di spostamento che possono essere utilizzati, gli orari di uscita ed entrata dall'attività e il fatto di non poter portare in tasca un proprio documento di identità, ma solo un tesserino rilasciato dal carcere.
È previsto che il lavoratore “detenuto” riceva la paga contrattualmente prevista attraverso un versamento sul conto corrente personale attivo dentro il carcere. Il legislatore ha pure varato degli incentivi per le aziende che assumono un detenuto.
Tutto questo ragionamento si applica anche a chi, per questione di età e di pensione percepita, svolge l’attività esterna non come dipendente, ma come volontario.
Tutto bello sulla carta, ma anche in questo caso la realtà presenta criticità notevoli. Anzitutto il numero assai contenuto di detenuti che lavorano all’esterno — circa 3000, ossia il 3,2 per cento dei reclusi — e la diffidenza del mondo del lavoro ad avvicinarsi al mondo della detenzione.
Nel panorama della detenzione, così complesso e articolato, l’aspetto lavorativo dentro e fuori deve sempre di più coinvolgere la collettività ed il mondo della produzione, ma deve pure trovare meno fatiche nelle carceri e nella magistratura di sorveglianza.
Il bisogno di una nuova mentalità è l’asse vincente per migliorare il sistema.
S.C.