
di Felicita Pistilli e Fabrizio Salvati
Al tavolino di un bar, la vista si spalanca sul Colosseo: è da qui che riflettiamo sul senso della libertà. Il panorama si apre largo davanti ai nostri occhi: qualcosa di scontato nella bellezza di Roma. Ma c’è chi il mondo — è questo che pensiamo — lo guarda da una finestra con le sbarre e a mala pena riesce a vedere uno spicchio di cielo. Un mondo a parte: il carcere. Ma in quest’anno giubilare, dedicato alla speranza, proprio in un carcere Papa Francesco ha voluto aprire una Porta Santa.
Allora proviamo anche noi a varcare, simbolicamente, quella porta della cappella della casa circondariale di Rebibbia a Roma, diventata la quinta basilica giubilare. Lo facciamo, innanzitutto, seguendo il racconto di chi lo ha fatto veramente.
Parliamo con Massimo e gli chiediamo perché questo pellegrinaggio. «L’ho fatto inizialmente per la curiosità di vivere un paradosso: passare una porta per entrare in un posto chiuso, il simbolo della chiusura per antonomasia».
Massimo ha varcato la Porta Santa di Rebibbia insieme con la sua parrocchia, una di quelle che hanno accolto l’invito del Servizio per la pastorale carceraria della diocesi di Roma a intraprendere un percorso di vicinanza e di solidarietà con il mondo della detenzione. Massimo ci racconta che la sua prima impressione è stata quella di trovarsi in un “mondo capovolto”. La sensazione si percepisce bene nel momento in cui si va via, spiega: «Io potevo uscire, gli altri no». In quel momento la porta mette in evidenza la separazione dal resto della città, una ferita da sanare.
Già solo da questa riflessione si capisce il senso del gesto compiuto da Papa Bergoglio: andare a Rebibbia il 26 dicembre, subito dopo aver aperto la Porta Santa della basilica di San Pietro. Arrivato in sedia a rotelle davanti all’ingresso della cappella, il Papa si è alzato e ha aperto la porta giubilare. È stata la prima volta dentro una casa di reclusione. «Tutti i giorni prego per voi e non è un modo di dire», sono state le parole del Pontefice.
Massimo riprende il racconto: «Entrare in carcere — lo avevo già fatto qualche volta da volontario — significa guardare negli occhi l’altro. Lì si socializza anche solo con un cenno di saluto, che significa dire a chi ti sta di fronte: tu esisti».
«Perché loro e non io?», sono le parole con le quali Papa Francesco accompagnava ogni sua visita ai detenuti. Massimo ci dice che, da cristiano, superare la Porta Santa di Rebibbia è stato riconoscere il suo essere peccatore. Ma la forza di quel passaggio, sottolinea, è universale: «Bergoglio ha messo al centro una realtà, permettendo di vederla da vicino anche a chi, di solito, sta a guardare alla finestra».
La conoscenza, dunque, come primo passo della speranza. E la speranza dei detenuti, quel 26 dicembre del 2024, era proprio questa: che l’apertura della Porta Santa fosse il simbolo di una apertura che andasse oltre quel giorno, oltre i luoghi comuni e i pregiudizi. Ai tanti giornalisti, che aspettavano fuori dal carcere per chiedergli l’importanza di quel gesto, Francesco ha risposto così: «Molto importante, perché dobbiamo pensare che tanti di questi non sono pesci grossi, i pesci grossi hanno l’astuzia di rimanere fuori e noi dobbiamo accompagnare i detenuti. Gesù dice che il giorno del giudizio saremo giudicati su questo: ero in carcere e mi hai visitato».
Massimo ci racconta che nella cappella del carcere c’era una fila di panche vuote a separare i detenuti. Ma il solo fatto di essere nello stesso luogo annullava le distanze. Ogni incontro è speranza.
Don Marco Fibbi è uno dei cappellani di Rebibbia. «Per i detenuti incontrare il Papa è stata una grande emozione. Li ha salutati uno a uno — racconta — e avrebbe voluto salutare anche quelli rimasti in cella. Tutti hanno sentito il suo affetto ed è quello che ha restituito loro la speranza. La speranza per chi è in carcere è guardare al futuro sapendo di essere amati fuori, non più giudicati. La fede, in questo, dà grande forza». Don Marco osserva, ogni volta, la curiosità nei loro occhi, quando vedono arrivare i pellegrini: «Rappresenta un collegamento con l’esterno; soprattutto significa attenzione verso di loro». Così si allarga il loro spicchio di cielo.
Varcare la Porta Santa di Rebibbia è fare proprio il messaggio di Bergoglio che — sottolinea ancora don Marco — «ha tanto amato i carcerati, tornando tra le sbarre fino all’ultimo con la visita al carcere di Regina Coeli compiuta il Giovedì Santo, pochi giorni prima della sua scomparsa».
Al ricordo di quella vicinanza è dedicato anche l’ultimo numero di «Non tutti sanno», un periodico realizzato dai detenuti della casa di reclusione di Rebibbia. Scrivono dell’umanità di Papa Francesco, lo definiscono «voce e speranza dei reclusi», ma poi osservano che i suoi appelli ai potenti per rendere più umane le condizioni di vita in carcere sono rimasti inascoltati.
È stato proprio don Marco, qualche settimana fa, ad accompagnare Gennaro e Paolo, due detenuti di Rebibbia in permesso premio, all’udienza generale di Papa Leone XIV, portando in Piazza San Pietro l’emozione dell’incontro con Francesco: «È un sentimento ancora vivo nei nostri cuori — dice —, speriamo che anche lui venga a farci visita presto». In quell’occasione, Prevost li ha accolti con queste parole: «Anche nei momenti bui della vita, chiediamo al Signore che ci raggiunga là dove lo stiamo aspettando».