Voci dal carcere della Giudecca Parlano le donne

Dare e ricevere ritmo di libertà

 Dare e ricevere  ritmo di  libertà  ODS-033
05 luglio 2025

di Fanta, Giulia, Jasmine, Manuela, Patrizia, Sabrina, Stefania, Susanna, Maria-Thommasina
con Flavia Chiavaroli e Sergio Massironi

Periferico, fosse anche al centro di una città, è ciò che non viene visto. «Per loro siamo in galera e basta. Persino i nostri familiari, fuori, non immaginano lo sforzo che facciamo». Queste parole, che raccogliamo nel cuore di Venezia, fra le donne della Casa di reclusione femminile alla Giudecca, denunciano una rimozione collettiva che ci rende tutti più poveri. «Io non pensavo – aggiunge una di loro – che in carcere ci fosse un percorso: lo ritenevo solo un posto in cui stare chiuse ad aspettare». Ebbene, che cosa può, o deve, avvenire perché il cammino cominci? Cogliere tale innesco rappresenta una ricchezza anche per chi non sta dietro le sbarre, ma si chiede forse come ripartire, come vivere a pieno e meglio.

La domanda, di per sé, è quasi mal posta, almeno se parte dall’assunto che ognuno di noi ha bisogno di essere libero per liberarsi dei propri demoni, delle proprie paure, per espiare le proprie colpe e per conoscere il perdono. Eppure, spesso, è questa determinazione che manca e che sembra di non potersi dare. Tuttavia, nel semplice gesto del dare, del donare all’altro, si gettano le basi di un percorso di crescita personale che, altrimenti, potrebbe sembrare insormontabile.

«Qui, a differenza di fuori, siamo tutte uguali: diverse, ma nella stessa condizione. Questo può aiutare a ricredersi, a mettersi nei panni altrui». Non c’è alcun automatismo, ma è l’immedesimazione, il sentire prossima la sorte altrui, che può interpellare profondamente e chiamare a un cammino.

La distanza da casa, dagli affetti, la vicinanza forzata con chi non ti conosce, e spesso vuole solo sfruttarti, possono — sì — alimentare l’alienazione, «ma cosa succede quando si interrompe la spirale della rabbia, del rancore e dell’orgoglio e si decide di tendere una mano a chi ha ancora più bisogno di quanto non ne abbia tu?». Una donna domanda, un’altra risponde riflettendo: «Ho imparato di più, qui, a riconoscere autenticità e maschere e così ho potuto dare di più di quel che ho dato fuori». Le fa eco una giovane madre: «Qui dentro tutto è mancanza: di abbracci, del sostegno dei tuoi, della presenza dei figli. È questo a imprimere maggior valore al dare e al ricevere».

Uscire da se stesse, per ritrovare la serenità e la pace insita in un gesto disinteressato, in un sorriso, in un abbraccio nei momenti di difficoltà: è il primo passo «per distruggere il senso di impotenza e iniziare a restituire quello che abbiamo tolto e, perché no, anche quello che ci è stato tolto».

Nel disinteresse del gesto non si cerca mai la gratitudine dell’altra, soprattutto in un luogo in cui dolore e solitudine spesso offuscano il giudizio e minano la buona fede dell’atto spontaneo. L’altra può non vedere, non apprezzare. Si può comprendere anche questo: «Soffro, provo imbarazzo quando l’altra pensa che sto offrendo per ottenere qualcosa e non riesce a concepire che desidero solo condividere. D’altra parte, se le persone accettano i cuori imparano, se rifiutano non fanno passi». Una legge non scritta, ma più profonda di qualsiasi codice da cui siamo superficialmente giudicati.

Le donne del carcere ci insegnano a rompere l’idea che la restrizione fisica impedisca un percorso, anzi incitano ognuno di noi a guardare oltre le mura erette dai pregiudizi: molte di loro colgono ogni giorno nuove occasioni per avanzare nel proprio percorso, per abbracciare le proprie debolezze, per perdonarsi (senza autoassolversi) e per andare avanti mostrando al mondo un nuovo volto. Se c’è qualcosa che fa bene ricevere, è l’attestazione di tale cambiamento: «Nel mio caso i familiari l’hanno capito dal tono di voce con cui mi sentono al telefono. Non possono venire a farmi visita, ma senza vedermi hanno inteso tutto. Mi ha tanto sorpreso ascoltare che non mi avevano mai sentita così!». C’è il figlio che si decide a vedere la madre dopo anni: «Mamma, come sei cambiata!». Sono piccole, nascoste, ma vere risurrezioni.

Quante maschere, inizialmente, aiutano in un carcere a proteggersi dalla vergogna, dall’umiliazione, dalla miseria, dalla paura. Eppure, quanta bellezza si sprigiona dal gesto di far cadere la maschera e rivelare il proprio volto, tendendo una mano verso chi non se lo aspetta. Si svela, allora, anche il dolore, ma chi ha il coraggio di lasciar cadere anche questo velo non ha più bisogno della validazione altrui per liberarsi dal senso di colpa e dalla pena. Sta tendendo la mano, sta cercando il cambiamento e, mettendo la propria nell’altra mano, lo troverà.