Venticinque anni di lezioni della storia

 Venticinque anni di lezioni della storia  QUO-148
28 giugno 2025

di Roberto Paglialonga

11 settembre 2001. Con l’attentato jihadista alle Torri Gemelle di New York la storia dell’umanità subisce un’accelerazione prima impensabile. L’Occidente improvvisamente si scopre nudo, e il mondo un po’ più “piatto”, come scriverà qualche anno dopo Thomas Loren Friedman. Muri e grattacieli, nonostante la loro imponente fisicità, non sono più ostacoli al male, da una parte all’altra del globo. Da quel momento le dottrine militari pompano un concetto (poi entrato nell’uso comune del linguaggio politico) che proprio in questi giorni, nonostante la tregua raggiunta nel conflitto che contrappone Israele, Iran e Stati Uniti, si sta imponendo con prepotenza all’attenzione mediatica: il regime change. Ipotesi, quest’ultima, che Benjamin Netanyahu ha ventilato proprio come esito della guerra contro Teheran, per ribaltare un ordine — anche in quel caso derivato da un cambio di regime — che si regge dal 1979, e ridisegnare di fatto la mappa del Medio Oriente.

Cambiare regime. E poi?

Non che prima del 2000 gli interventi anche violenti — tanto attraverso processi interni quanto attraverso azioni militari imposte da attori stranieri — per sostituire un potere o un governo con un altro fossero estranei al sistema internazionale. Secondo una banca dati di Alexander Downes, centoventi capi di Stato sono stati rimossi dal 1816 tramite un cambio di regime imposto dall’esterno. Ma alcune istantanee degli ultimi venticinque anni — Afghanistan, Iraq, Libia — risultano particolarmente significative per verificare quali conseguenze si siano effettivamente prodotte rispetto agli obiettivi inizialmente preventivati. È del tutto evidente come alcuni sistemi dittatoriali o decisamente autoritari siano stati, e siano tutt’oggi, ben lontani dal rispetto delle libertà, dei diritti della persona, della giustizia e dell’uguaglianza riconosciuti nei principi della Carta delle Nazioni Unite: non è nella loro natura. Era (ed è) quindi quantomeno lecito auspicare per le loro popolazioni qualcosa di meglio. Tuttavia è altrettanto lecito chiedersi: i risultati ottenuti rispecchiano gli obiettivi iniziali? E ancor prima: è pensabile imporre un modello istituzionale e di convivenza civile uniforme a tutti i paesi, a tutte le culture, a tutte le società? Oppure farlo è non solo sbagliato ma anche controproducente? Infine bisognerebbe anche domandarsi se non esistano mezzi diversi dall’uso della forza per ottenere un cambio di sistema e di potere, e se (e quanto) questi siano effettivamente in grado di portare a risultati significativi. I casi proposti aiutano, forse, a far intravedere qualche risposta, certamente non esaustiva ma sicuramente indicativa dello stato dell’arte. Almeno fino a oggi.

Afghanistan: dopo i talebani
ancora i talebani

Nel 2001, come ritorsione all’attentato subito in casa, l’amministrazione Usa di George W. Bush decide di distruggere i campi di addestramento e le installazioni militari dell’organizzazione Al Qaida, identificata come responsabile dell’assassinio delle tremila persone morte a Manhattan; eliminare i talebani che avevano dato ospitalità alla “mente” dell’attacco, il terrorista Osama Bin Laden, e rovesciare il loro regime in Afghanistan dove dal 1996 — dopo aver sconfitto altri avversari politici, “signori della guerra” e capi mujaheddin — questi avevano fondato un emirato islamico. «Siamo sostenuti dalla volontà collettiva del mondo. Il popolo oppresso dell’Afghanistan conoscerà la generosità dell’America e dei suoi alleati», dirà Bush nel suo discorso alla nazione il 7 ottobre 2001. L’operazione Enduring Freedom vede impegnate complessivamente oltre cinquanta nazioni di cui ventisette direttamente con le proprie forze militari. Sul terreno il conflitto viene combattuto dalla cosiddetta Alleanza del Nord, ovvero gruppi militari locali anti-talebani, mentre piogge di missili e bombardamenti aerei prendono di mira vaste aree del territorio afghano, da Mazar-i-Sharif a Herat e Kabul. Ma vengono avviate anche operazioni di guerra psicologica. I “santuari” talebani cadono nel giro di pochi giorni ma il loro leader, il mullah Omar, “sguscia via” — dicono i corrispondenti di guerra — a bordo di una motocicletta, e Bin Laden fugge in Pakistan (verrà ucciso in un’operazione militare ad Abbottabad nel 2011). Il segretario di Stato statunitense, Colin Powell, imprudentemente, annuncia la fine della leadership talebana e dichiara conclusa la campagna militare. La guerra invece va avanti con nuove insurrezioni islamiste, nonostante la costituzione di un governo sostenuto da una forza internazionale di sicurezza, e nuove operazioni alleate.

Si decide in seguito la “afghanizzazione” del conflitto. Un modo per tirarsi fuori dal pantano: le truppe americane e Nato iniziano a preparare il ritiro prima con Barack Obama (2014-2015) e, dopo accordi tra l’amministrazione di Donald Trump e gli stessi talebani (2018-2020), definitivamente con Joe Biden (2021). Risultato? Il 15 agosto di quattro anni fa i talebani rientrano a Kabul conquistandola e spodestando il governo di Ashraf Ghani: nel giro di due settimane il mondo assiste in tv alle scene del personale statunitense che lascia il paese a bordo di elicotteri.

Oggi l’Afghanistan, di fatto un emirato islamico dove si applica la sharia, ha una guida suprema, Haibatullah Akhundzada, che si rafforza giorno dopo giorno, e il governo rimane privo del riconoscimento ufficiale internazionale. Quindi isolato. «L’impronta oltranzista e ultra-ortodossa si manifesta nell’accresciuto potere del Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio», spiega un’analisi dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), «e si mostra nella stretta interna, nella contrazione dei diritti umani, nell’istituzionalizzazione della discriminazione di genere», con un controllo sulla società sempre più capillare e violento. Un rapporto di Reliefweb, che analizza i dati fra il ritorno dei talebani e il 2024, segnala oltre 1030 casi di utilizzo della forza e violazione delle libertà personali, con danni fisici e mentali. Un dossier del Relatore speciale dell’Onu sui diritti umani in Afghanistan del maggio 2024 evidenzia come le «detenzioni arbitrarie siano raddoppiate, le sparizioni forzate triplicate rispetto al 2023, la situazione dei diritti umani disastrosa». E, secondo Human Rights Watch, i talebani hanno creato «la peggiore crisi dei diritti delle donne al mondo». È stata promulgata una “legge sul vizio e la virtù” che proibisce alle voci femminili di essere ascoltate in pubblico e impedisce l’uso dei mezzi di trasporto alle donne senza accompagnatori maschi. Colpite inoltre istruzione e libertà di espressione: Reporters sans frontières ha classificato l’Afghanistan fra le tre peggiori nazioni per la libertà di stampa nel 2024. Sul piano economico-sociale lo United Nations Development Programme ha riferito che circa l’85 per cento degli afghani vive con meno di un dollaro al giorno e, secondo l’Ufficio Onu per gli affari umanitari, oltre 23 milioni di persone, più della metà della popolazione del paese, necessitano di assistenza umanitaria. Dal 2022 si registrano attentati compiuti dall’Isis-K, lo “Stato islamico” della provincia del Khorasan.

Iraq: dalle prove false degli Usa
al sedicente Stato islamico

Uno dei motivi del protrarsi della “campagna afghana”, e infine del suo sostanziale fallimento, è stato attribuito alla “distrazione” degli Stati Uniti, a partire dal 2003, verso l’Iraq, dove pure vennero inviati mezzi e uomini. Un’operazione, quella dell’invasione del paese governato dal 1979 da Saddam Hussein, nata ancora una volta nell’ambito della “guerra al terrore”. Il regime iracheno, additato dall’amministrazione di George W. Bush come l’“asse del male”, viene accusato di possedere armi di distruzione di massa (chimiche, biologiche e forse nucleari) costruite a partire dalla sconfitta nel 1991 durante la prima guerra del Golfo, e collegamenti, non confermati, con Al Qaida. L’immagine simbolo che fa da preludio all’attacco, partito poi effettivamente il 20 marzo 2003, è quella del segretario di Stato Colin Powell che il 5 febbraio dello stesso anno si presenta al Consiglio di sicurezza dell’Onu esibendo una fialetta contenente un liquido giallastro, oltre a un dossier che mostra immagini satellitari da cui, secondo i sostenitori della “guerra preventiva”, era possibile identificare i luoghi di stoccaggio delle armi, poi mai trovate, e laboratori mobili per la fabbricazione delle stesse, poi mai identificate. La famosa “pistola fumante”. In realtà (si scoprirà in seguito) una bugia bell’e buona che anni dopo lo stesso Powell confesserà di rimpiangere di aver pronunciato, attribuendola soprattutto a «un grande fallimento dell’intelligence». Fu “solo” questo o si trattò di una menzogna costruita ad arte? Di certo nei mesi precedenti il conflitto — testimoniano anche numerosi inviati di guerra dell’epoca — i servizi segreti di Washington condividevano con i media imponenti faldoni documentali che sembravano confermare l’esistenza concreta del pericolo, mentre sul piano politico la Casa Bianca si adoperava per convincere gli alleati europei e atlantici a fornire l’appoggio militare. A supporto delle tesi americane c’erano anche la testimonianza del dissidente “Curveball” (alias Rafid Ahmed Alwan al-Janabi), poi sconfessato nel 2004 da un rapporto del gruppo di sorveglianza inviato in Iraq dalla coalizione per verificare la veridicità delle accuse; le parole del politico Ahmad Chalabi, ministro iracheno del Petrolio ad interim nel 2005, che però nel 2015 alla tv France 5 rivelerà di aver contribuito alla “fabbricazione” delle accuse contro Saddam (e verrà trovato morto, ufficialmente per un attacco di cuore, il giorno seguente l’intervista); il falso documento Nigergate su un presunto traffico di uranio tra la Nigeria e l’Iraq.

I primi rapporti dell’intelligence, tanto negli Stati Uniti quanto nel Regno Unito, che smentiscono la presenza di armi di distruzione di massa a Baghdad iniziano a essere pubblicati già nell’anno successivo all’intervento armato contro il regime baathista. Quando ormai, però, è troppo tardi, mentre nel 2016 il rapporto della Commissione Chilcot, istituita in Gran Bretagna, stabilisce definitivamente che «nel 2003 non c’era una minaccia imminente da parte di Saddam Hussein». Ammissioni circa le reali motivazioni della guerra emergono già a fine maggio 2003 anche dai diretti interessati. Paul Wolfowitz, sottosegretario alla Difesa Usa e inventore della “dottrina della guerra preventiva”, spiega in un’intervista a «Vanity Fair» che le armi di distruzione di massa «furono solo un pretesto: non è mai stata quella la vera motivazione». Nel 2007, nel suo libro di memorie, l’ex capo della Federal Reserve, Alan Greenspan, assicura che l’unico motivo dell’invasione era il controllo delle riserve di petrolio.

L’idea di invadere l’Iraq non nasce a ridosso dell’intervento: negli Stati Uniti se ne parlava già dalla fine del 2001 e nel corso del 2002. Tra i più accesi sostenitori di questa tesi il vicepresidente, Dick Cheney, e il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, esponenti di quella corrente chiamata “neocon”. Dopo la formazione della Coalition of the willing a cui aderiscono, oltre agli Usa, alcuni stati europei tra cui il Regno Unito e l’Italia, e nonostante la risoluzione 1441 dell’8 novembre 2002 del Consiglio di sicurezza — che imponeva all’Iraq di essere collaborativo nelle missioni di ispezione delle armi sul territorio escludendo tuttavia l’autorizzazione all’uso della forza — il 20 marzo 2003, senza alcuna dichiarazione ufficiale, la guerra ha inizio. Pesanti raid e incursioni via terra si svolgono contemporaneamente. Già il 9 aprile i mezzi dell’esercito statunitense entrano a Baghdad. La statua di Saddam, posta al centro della piazza antistante l’Hotel Palestine, viene tirata giù da un carro armato. Dopo ventitré anni di potere, cade il regime del rais iracheno. In breve vengono conquistate Kirkuk, Mosul e Tikrit. Il 1° maggio dalla portaerei “Uss Lincoln” Bush può dichiarare «Mission accomplished!», mentre Saddam viene arrestato il 13 dicembre 2003 vicino a Tikrit (verrà giustiziato dopo un processo interno il 30 dicembre 2006). I costi della guerra sono incerti benché il numero dei morti sia comunque molto elevato: nell’esercito di Saddam la cifra va dai 7000 ai 10.000 circa mentre tra i civili — secondo il sito Iraqi Body Count e i documenti emersi con WikiLeaks nel 2010 — si avvicina ai 68.000.

Ma la conclusione del conflitto non è sempre l’inizio della pace. Il crollo repentino di istituzioni e strutture di potere consolidate generano il caos, nonostante le misure di stabilizzazione e quelle per la costituzione di un nuovo governo di transizione. Nel vuoto venutosi a creare scoppia la ribellione degli sciiti, vissuti per lungo tempo sotto il governo della minoranza sunnita. Emergono leader come Moqtada al-Sadr, fondatore dell’esercito del Mahdi. Scontri violenti e attentati si protraggono per otto anni e nel 2008 Bush incrementa la presenza numerica dei soldati (il cosiddetto surge). Fino al 2011, quando gli americani stabiliscono un definitivo ritiro dal paese lasciando il potere militare in mano agli iracheni. Secondo dati del Worldwide Incidents Tracking System, circa il 75 per cento dei morti causati da attentati suicidi in Iraq tra gennaio 2004 e giugno 2008 sono civili. In base a una ricerca intitolata Sociologia del terrorismo iracheno, di Domenico Tosini, che ha raccolto dati da vari database internazionali, «tra marzo 2003 e giugno 2008 si registrano in Iraq 1240 attacchi suicidi, per un totale di morti stimati pari a un minimo di 11.830 e a un massimo di 12.786 (circa il 56 per cento degli attentati e il 52 per cento dei morti causati da tutte le campagne suicide dagli anni Ottanta a oggi)».

Tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, poi, anche per i contraccolpi che arrivano dalla guerra civile in Siria, si registra la nascita del sedicente Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Is), organizzazione terroristica internazionale di ispirazione salafita, con a capo l’autoproclamato emiro Abu Bakr al-Baghdadi che fa segnare un’impennata di nuovi attentati e combattimenti che coinvolgono nuovamente soldati statunitensi, assieme al governo iracheno e a milizie sciite in supporto dei marines. A Mosul nasce il califfato. Nel paese scoppia una vera guerra civile: lo scontro politico tra il premier sciita Al Maliki e i movimenti sunniti, che lo accusano di essere affine all’Iran, è durissimo. Una coalizione internazionale, a cui partecipano anche paesi del Golfo, scatena un’offensiva contro l’Is. Si aggiungono milizie yazide, combattenti del Pkk e peshmerga curdi, che secondo Amnesty International sono responsabili di numerosi abusi contro la popolazione sunnita. Nella memoria rimangono le sanguinarie battaglie di Falluja nel 2014 e di Mosul nel 2016-2017. Nel 2017 la guerra all’Is viene dichiarata vinta e nel 2019 il califfato definitivamente sconfitto. Sacche di terrorismo tuttavia rimangono attive. Si impongono nelle ultime tornate politiche del 2018 e 2021 i movimenti sciiti, tra cui quelli più radicali guidati da Moqtada al-Sadr, e partiti filo-Iran, riuniti nella coalizione governativa Coordination Framework. Un problema non da poco per Washington che preme per ridurre al minimo l’influenza di Teheran nell’area e la possibilità di alleanze delle milizie irachene filo-iraniane con altri attori regionali come gli houthi. Nell’anno in corso — sottolinea un’analisi di Lorenza Stella Marini sul sito dell’Ispi — l’Iraq è ancora «alle prese con una situazione politica interna complessa, segnata dalle incertezze sugli equilibri politici in vista delle elezioni» dell’autunno 2025 e da un rischio che si vada verso una sempre maggiore «polarizzazione etno-settaria nel paese». Anche «la regione del Kurdistan vive in una fase intermedia tra la transizione e lo stallo», mentre sul fronte esterno capire come relazionarsi con il nuovo potere a Damasco «rappresenta una priorità per Baghdad, soprattutto nello scenario di un potenziale riemergere dello Stato islamico al confine siro-iracheno». Tutto questo si riflette nei dibattiti rispetto all’eventualità di cambiare i piani di ritiro dall’Iraq della coalizione internazionale a guida americana per la lotta contro l’Is. Sembra che, sostiene sempre l’Ispi, in seguito alla caduta di Assad «persino le forze sciite al governo, che prima spingevano per un ritiro della coalizione, ora ne temano le conseguenze». Dopo ventidue anni dal regime change del 2003, terrorismo e sicurezza continuano dunque a rimanere un obiettivo prioritario per la stabilizzazione dell’Iraq.

Dopo Gheddafi la Libia nel caos
di lotte tribali e guerra civile

La notizia è di pochi giorni fa. Il Comitato di collegamento della città di Tripoli denuncia che «la capitale è una polveriera, il rischio è una nuova guerra civile». Il primo ministro del governo di unità nazionale, Abdul Hamid Mohammed Dbeibah, secondo quanto riferito dallo stesso Comitato, avrebbe comunicato che, «date le circostanze attuali», si sente costretto a combattere. Nella regione occidentale libica opererebbero ben ventisette apparati di sicurezza e dieci brigate militari, con una frammentazione che non può favorire la stabilizzazione di una nazione in guerra da quattordici anni. Gruppi di manifestanti si sono riuniti davanti alla sede della Missione Onu per la Libia (Unsmil) per chiedere la destituzione del governo in carica, accusato di incapacità nel far fronte al deterioramento delle condizioni politiche ed economiche del paese. Una situazione nuova? Decisamente no. Tra il febbraio e l’ottobre 2011 le sommosse popolari, scoppiate in Libia sull’onda delle cosiddette “primavere arabe” in Tunisia, Egitto e altri stati dell’area, diventano un ampio moto di protesta che, a partire dall’est, coinvolge i maggiori centri abitati della Cirenaica, tra cui Bengasi, Beida e Derna. La sommossa libica, in particolare, viene innescata dal desiderio di rinnovamento politico contro il regime ultraquarantennale del colonnello Mu’ammar Gheddafi, salito al potere nel 1969 dopo un colpo di Stato che condusse alla caduta della monarchia filo-occidentale di re Idris. A opporsi sono dunque le forze lealiste e quelle dei rivoltosi, riunite nel Consiglio nazionale di transizione. La repressione armata con cui risponde il governo libico tramuta le proteste in scontro aperto, e i manifestanti, anche grazie alla defezione di poliziotti e militari libici pronti a disertare, si organizzano in gruppi armati. La cosiddetta “giornata della collera” va in scena il 17 febbraio 2011: a Beida la repressione è durissima e i manifestanti morti alla fine sono almeno quindici. Il 23 febbraio, una settimana dopo l’inizio degli scontri, «Al Arabiya» riferisce di 10.000 morti e 50.000 feriti, dati definiti “credibili” dalla Farnesina. Oltre alle città principali della Cirenaica, Bengasi e Sirte, luogo natale del colonnello, anche larga parte del sud del paese finisce in mano agli insorti. Dal 21 del mese le proteste interessano pure Tripoli, centro nevralgico del potere di Gheddafi, dove le forze governative rispondono con pesanti raid.

Anche nel caso libico il ruolo di alcuni agenti esterni internazionali non è secondario. Gli stati dell’Occidente provano a cavalcare la situazione per rovesciare Gheddafi, nonostante il rapporto di convenienza che negli anni lo ha legato proprio a coloro che ora lavorano per detronizzarlo. Diversi osservatori hanno visto nella Francia un attore che, assieme ad alcuni emirati del Golfo (Qatar su tutti), avrebbe sobillato le rivolte appoggiando gruppi radicali anti-regime per interessi personali, come le risorse economiche e il petrolio, “somalizzando” un territorio caduto nelle mani di entità tribali, milizie di terroristi islamisti e bande criminali. Per Arturo Varvelli, analista dello European Council on Foreign Relations, invece, la rivolta libica avrebbe colto di sorpresa Parigi dando all’allora presidente, Nicolas Sarkozy, «la possibilità di rilanciare la politica francese nella regione, offrendo una nuova percezione presso il mondo arabo: non più una Francia compromessa con gli autocrati ma una Francia in soccorso delle esigenze di libertà e democrazia richieste ora dalle popolazioni del Mediterraneo. In quest’ottica, più che un piano prestabilito, è maggiormente evidente la volontà di sfruttare un’opportunità». Di certo, i rapporti tra Francia e Libia hanno vissuto nel tempo momenti altalenanti, per esempio negli anni Ottanta per la guerra in Ciad, o più recentemente per tante dispute nello scacchiere africano. Fatto sta che è proprio la Francia a inaugurare l’intervento armato di una parte dei membri dell’Onu a sostegno dei rivoltosi attorno a Bengasi. Seguita poi da Stati Uniti, e non solo.

Il 19 marzo 2011 ha così inizio l’operazione militare internazionale con, tra gli altri, Usa, Regno Unito, Canada, Italia, Qatar e Francia, appunto, autorizzati dalla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza che, nel marzo dello stesso anno, aveva istituito una no-fly zone sulla Libia. Lo scopo ufficialmente è tutelare l’incolumità della popolazione civile dai combattimenti tra le forze leali a Gheddafi e i gruppi ribelli. Il 21 ottobre cade, dopo un assedio di due mesi, la città di Sirte, nella quale il rais, dopo aver lasciato Tripoli, si era asserragliato dal 21 agosto. Attaccato da aerei francesi della Nato, Gheddafi viene catturato e subito ucciso da gruppi di ribelli. È la fine della prima guerra civile. Ma la morte del colonnello apre uno scenario nuovo che porta poi, nel 2014, alla seconda guerra civile libica che dura fino al 2020 e, più in generale, a una lunga transizione ancora incompiuta. Tuttora si fronteggiano sul campo due governi distinti e rivali: da una parte il Governo di stabilità nazionale (Gsn), con base nella città orientale di Tobruk e sostenuto dall’Operazione Dignità del generale Khalifa Haftar; dall’altra il Governo di unità nazionale (Gun), internazionalmente riconosciuto, con sede nella capitale Tripoli. In campo sono scese direttamente anche Turchia e Russia, la prima in appoggio del Gun, la seconda del Gsn. Il processo di pace, avviato con una dichiarazione congiunta del 21 agosto 2020 per un immediato cessate-il-fuoco, rimane lettera morta. Le rivalità che hanno portato alla polarizzazione del conflitto sono molteplici, di carattere politico (islamisti vs anti-islamisti; ex gheddafiani vs anti-gheddafiani), regionale (tra Misurata e Zintan; tra Cirenaica e Tripolitania) ed etnico. Come diversi sono poi i gruppi presenti sul territorio: si va dai jihadisti — dal 2014-2015 fa il suo ingresso in scena anche l’Is — a milizie locali, a cosche di stampo mafioso, che si fronteggiano senza regole. L’immagine è quella di un alveare a cui un orso ha dato una zampata alla ricerca del miele, scatenando uno sciame di api che ora non può più essere ricompattato e contenuto.

In tale contesto, disastrosa è la situazione umanitaria. I morti in quattordici anni di conflitto permanente, in base ad alcuni calcoli, sarebbero decine di migliaia tra militari e civili. Secondo l’Onu, «diffuse violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, e abusi dei diritti umani, sono state commesse da tutte le parti in conflitto in Libia nel 2014-2015»: tra queste, uccisioni illegali, attacchi contro i civili, detenzioni arbitrarie, torture e violenze contro le donne. Il numero di sfollati interni è salito da 80.000 nel maggio 2014 a 435.000 nel maggio 2015, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, per poi attestarsi nel 2022, dice l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, a 136.000. L’instabilità, la guerra e la mancanza di un’autorità centrale in grado di controllare i porti e collaborare con i paesi europei nel contrasto alle reti illegali del traffico di esseri umani hanno reso la Libia un hub ideale per le partenze di migranti provenienti da Africa subsahariana e Asia verso l’Europa. Un “inferno” che sempre più spesso si impone con il suo carico di morte e drammaticità tra le principali notizie di giornali e tv.