
di Lorena Leonardi
Con un’unica voce, sofferente e speranzosa, la preghiera del rosario si è levata stamani, sabato 28 giugno, in piazza Pia per aprire il Giubileo della Chiesa greco-cattolica ucraina alla tomba dell’apostolo Pietro. Il flusso dei circa cinquemila fedeli, riconoscibili per le numerose bandiere nazionali e i fazzoletti blu e gialli annodati sulle spalle, ha dato il via al pellegrinaggio lungo via della Conciliazione.
Al termine, dopo aver attraversato la Porta Santa, in San Pietro l’incontro con Leone XIV — durante il quale il Pontefice ha salutato e benedetto alcune madri di soldati caduti al fronte — e la divina liturgia in rito bizantino-ucraino presieduta dall’arcivescovo maggiore di Kyiv-Halyč, Sviatoslav Shevchuk, concelebranti i vescovi della Chiesa greco-cattolica ucraina provenienti da tutto il mondo. Domani, inoltre, presso il Pontificio collegio ucraino di San Giosafat, si aprirà il Sinodo dei vescovi della Chiesa greco-cattolica ucraina, incentrato sulla pastorale della famiglia in tempo di guerra.
Sotto il sole romano, i gruppi si individuano e si salutano gridando «Gloria all’Ucraina». Fratelli nel dolore, sanno che le loro lacrime hanno tutte lo stesso sapore, spesso più amaro per la lontananza dai propri affetti che rischiano la vita.
Quasi non ci sono uomini. Tra i pellegrini, donne in abiti dai ricami tradizionali, la maggior parte di loro indossa cappelli di paglia bianca per proteggersi dalla calura, con qualche adolescente e alcuni bambini tenuti per mano.
Svitlana è arrivata 25 anni fa a San Severo, provincia di Foggia, partita da Ivano-Frankivs’k. Nella mano sventola una piccola bandiera del suo Paese mentre gli occhi si inumidiscono al pensiero del marito, Aleksander, da tre anni al fronte. I figli e i nipoti della coppia vivono in Puglia. L’uomo, attualmente a Zaporizhzhia, è l’unico della famiglia a essere rimasto «a casa». E anche se l’Italia «è bella, dà lavoro», è altrove che un giorno tutti sognano di tornare: «Le nostre madri sono lì, la nostra patria è lì», ripete Svitlana scuotendo la testa.
Anche don Roman Pelo è in Italia da oltre un ventennio, «la metà della mia vita». Sorride il sacerdote che da Udine ha accompagnato nell’Urbe una quarantina di fedeli: i passi sono pesanti, dietro ogni volto c’è lo strazio per un figlio che non è tornato, il dolore per un marito mutilato, l’angoscia per un nipote rimasto orfano. Nella cura pastorale la parte più difficile, spiega il prete, è «stabilire un contatto con quanti attraversano queste vicende e cercano giustizia». L’auspicio del presbitero è che «la speranza non rimanga solo proclamata ma venga praticata» da chi può davvero «darsi da fare per la pace, perché mentre parliamo c’è un popolo che soffre».
Da Cleveland, in Ohio, negli Stati Uniti d’America, arriva Bohdan John Danylo, eparca di San Giosafat di Parma: «Attraverso la preghiera e la nostra presenza, testimoniando al mondo che siamo vivi e saldi, difendiamo l’Ucraina e la speranza di un domani migliore». Alla vigilia del Sinodo, sottolinea l’urgenza di preservare le famiglie tanto provate dal conflitto, nella fiducia in un «nuovo» dopoguerra abitato da uomini determinati a edificare una «società pacifica».
Gli fa eco don Vasil Marciuk, alla guida di un centinaio di ucraini greco-cattolici giunti da Bergamo «per condividere con tutti gli ucraini il dono del perdono e di una preghiera insieme. Ci commuove vedere questa folla, tante bandiere, e speriamo che il Signore benedica la nostra patria e la nostra gente».
Ai circa cento fedeli della regione di Donetsk accompagnati da padre Aleksander Bohomaz, si affianca Maria Elena Virvan, lontana dall’Ucraina da molti anni e in cerca, oggi, di «un cammino di speranza per una pace giusta». Forte della certezza che «Dio è giusto» anche Elena, da Pescara ma nata a Leopoli, dove tutt’ora vivono il figlio con la moglie e i loro tre bambini, ancora piccoli. Si sentono ogni giorno, per telefono e in videochiamata. Nessuno di loro vuole andarsene: «Chi vorrebbe abbandonare la propria casa? Chi vuole scappare dalla propria terra? Dai Paesi bisognerebbe partire come turisti, non nei panni di rifugiati».
In questo Anno Santo don Roman Mykievych festeggia 25 anni di sacerdozio: è parroco di Tysmenytsia, città dell’ovest del Paese, e questo viaggio a Roma è per lui occasione di ringraziamento. Nei momenti difficili, le intenzioni di preghiera si moltiplicano: c’è «il motivo principale, la pace», ma anche «coloro che aiutano gli altri», senza dimenticare «i defunti, i soldati che hanno sacrificato la propria vita». E quando tutto intorno crolla, la soluzione non è imbracciare le armi ma abbracciare la fede, dalla quale, conclude don Roman, deriva la speranza in Cristo, «vera pace».