Quando il rapporto

di Roberto Cetera
Con la nomina di padre Francesco Ielpo a nuovo custode di Terra Santa si è conclusa ieri, 24 giugno, la lunga missione di padre Francesco Patton. Al termine del suo mandato Patton ha voluto ricordare con «L’Osservatore Romano» questi nove intensi anni.
Padre Francesco, dopo nove anni lascia la guida della Custodia di Terra Santa. Ai 350 frati che ha sostenuto, orientato e consigliato, dispiace tantissimo. Quali sono invece i suoi sentimenti?
Sono un frate minore e quindi ritengo importante che il servizio di autorità sia vissuto nella consapevolezza che è a termine e che è bene tornare a vivere da frate “semplice”. San Francesco diceva ai frati che quando uno cessa dal servizio di autorità deve essere contento perché il valore della persona non dipende dall’incarico. Mi permetta di citare per esteso l’Ammonizione XIX perché è un testo nel quale mi rispecchio totalmente: «Beato il servo il quale non si ritiene migliore, quando viene magnificato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più. Guai a quel religioso che dagli altri è posto in alto, e per sua volontà non vuole discendere. E beato quel servo che non viene posto in alto di sua volontà e sempre desidera stare sotto i piedi degli altri».
Nei nostri precedenti incontri lei mi ha spesso ripetuto: «In Medio Oriente nulla è come ciò che appare». Ci dice cosa in questi anni ha scoperto di vero e ciò che le è rimasto nascosto?
Aver vissuto gli ultimi nove anni in Medio Oriente non mi ha reso un esperto di Medio Oriente. È vero che qui “niente è come sembra”, per dirla con Eraclito, nel senso che per esempio a livello politico quelli che sembrano nemici poi si scopre che sottobanco fanno affari insieme e quelli che sembrano alleati poi si detestano. Ma ciò che mi ha colpito del Medio Oriente è qualcos’altro, molto più positivo, e cioè la cultura relazionale e dell’ospitalità. In questi anni mi sono fatto la convinzione che tutti i popoli che vivono attorno al Mediterraneo, indipendentemente dalla lingua e dalla religione, hanno in comune due cose: la prima è l’importanza che danno alle relazioni interpersonali, che è molto maggiore dell’importanza data alle regole e alle procedure (come accade per le culture europee non mediterranee che tendono ad assolutizzare regole e procedure e forse per questo non capiscono o fanno fatica a capire questa parte del mondo); la seconda è che danno importanza al mangiare assieme che non è mai solo una funzione biologica di sopravvivenza ma ancora una volta sociale, che si manifesta soprattutto nell’ospitalità. Devo dire che gli anni in Terra Santa mi hanno tolto molto del mio dna nordico per farmi abbracciare convintamente una forma mentis più mediterranea. Tra l’altro questi due elementi li trovo in Gesù e nei vangeli: le relazioni, che sono più importanti delle regole, e lo stare a tavola che diventa addirittura il lasciarsi accogliere alla mensa di Dio e l’ospitare Dio alla propria mensa.
Giordania, Cipro, Siria, Libano, Rodi, Egitto, Israele e Palestina. Sono i territori di presenza della Custodia. Vuole esprimere un ricordo per ciascuno di questi paesi e dei frati che li abitano?
Giordania per me vuol dire soprattutto il Monte Nebo, il luogo dal quale Mosè vede la Terra Promessa e poi muore, vuol dire per me il luogo in cui possiamo guardare la Terra con distacco e il Cielo da vicino. Cipro per me vuol dire i due giorni trascorsi con Papa Francesco al nostro convento di Santa Croce a Nicosia, circondati dal filo spinato e parte di una Chiesa multietnica e multiculturale che esprime il volto pentecostale della cattolicità; vuol dire anche san Barnaba, per me la più bella figura di discepolo narrata negli Atti degli apostoli. Siria ovvero il mio primo impatto con la guerra, nell’agosto del 2016, e quindi ammirare la dedizione alla missione dei “miei” frati che sono rimasti accanto alla gente, senza scappare e senza preoccuparsi di sé, per i lunghi anni del conflitto: pastori, non mercenari. Libano vuol dire un popolo di grande cultura e dignità dove i frati minori hanno saputo dialogare con tutti, con i cristiani di non so quante denominazioni, con i musulmani sciiti al sud e con i sunniti al nord e con le altre minoranze, mettendosi al servizio di tutti in questi anni di guerre, crisi economiche e instabilità politica. Rodi è un faro di accoglienza e di dialogo, una porta aperta a tutti e soprattutto una parola gentile che riconosce la dignità di ogni persona, anche dei profughi e dei rifugiati: questo grazie a un frate inglese molto mediterraneo di nome John Luke. L’Egitto mi richiama la bellissima esperienza di dialogo che abbiamo fatto con il più importante centro culturale musulmano sunnita, Al Azhar, nel 2019 in occasione dell’ottavo centenario dell’incontro tra san Francesco d’Assisi e il sultano a Damietta. Israele e Palestina non li posso separare: sono quella porzione di mondo dove sono concentrati la quasi totalità dei luoghi santi che custodiamo e che mi permette di riconoscere la profondità delle radici dei cristiani locali che hanno il dna di tutti quei popoli di cui ci parla il Nuovo Testamento: ebrei, samaritani, greci e pagani della Decapoli, romani giunti lì con le coorti, libanesi e siriani che frequentavano la Galilea delle genti per ascoltare Gesù e incontrarlo. Israele e Palestina è la terra di Gesù, di Giuseppe, di Maria e degli apostoli e ogni pietra, ogni paesaggio, ogni odore, mi richiama al Vangelo e mi permette di far fare esperienza tridimensionale del Vangelo. È la terra dove per nove anni ho potuto celebrare le pagine del Vangelo dicendo ogni volta hic, cioè qui: il verbo si è fatto carne, è nato, ha predicato, ha guarito, è morto ed è risorto.
Tra covid prima e guerra poi, gli anni del suo mandato sono stati particolarmente burrascosi e certamente difficili. Che Custodia di Terra Santa lascia?
Al di là di guerra e covid credo che la Custodia in questi nove anni sia cresciuta nella sua multiculturalità, allargandosi all’Asia e all’Africa in modo significativo e diventando così a sua volta un’ottima carta da visita della cattolicità: siamo frati di quasi sessanta nazionalità diverse e di tutti i continenti. L’allargamento sempre più cattolico della Custodia è forse ciò di cui sono più contento. Comunque non è mia intenzione lasciare la Custodia e, se dovessi per causa di forza maggiore lasciarla, penso che resterà sempre dentro di me.
Mantenere oltre trecento frati, sostenere una cinquantina di santuari, gestire diciassette scuole, un istituto teologico e una facoltà biblica, aiutare le parrocchie francescane, promuovere tante iniziative caritatevoli e culturali: come si mantiene la Custodia di Terra Santa?
La Custodia si mantiene grazie al lavoro dei frati, grazie alla Colletta del Venerdì Santo, grazie alla generosità dei pellegrini che frequentano (in tempo di pace) i santuari, grazie alla generosità di benefattori che ci aiutano perché hanno capito il valore della nostra missione, sia in ambito specificatamente religioso, sia in ambito sociale, attraverso per esempio le scuole di Terra Santa.
Come funziona la Colletta per la Terra Santa?
Ogni anno, in tutte le chiese cattoliche del mondo, il Venerdì Santo viene organizzata una colletta che è voluta dal Papa ed è a sostegno della Terra Santa, in special modo attraverso la Custodia. Le offerte poi vengono inviate ai commissari di Terra Santa o alle nunziature e di lì alla Custodia o al Dicastero per le Chiese orientali. Il 65 per cento viene poi gestito della Custodia, il 35 direttamente dal Dicastero. Chi vuole capire il senso della Custodia può leggere l’esortazione apostolica Nobis in animo di Papa Paolo VI o il recentissimo studio storico-giuridico, che abbiamo pubblicato con le nostre Edizioni di Terra Santa, La Collecta pro Terra Sancta. Analisi storico-critica dalla fondazione della Provincia d’Oltremare fino ai giorni nostri, di fra Eduardo e fra Silvio.
Come è stata in questi anni la sua esperienza personale di relazione interreligiosa? Ha avuto frequentazioni abituali, oltre i compiti istituzionali, con ebrei e musulmani?
Ho avuto soprattutto relazioni personali significative. Penso per esempio al rapporto con Osama Hamdan, musulmano, architetto di fiducia della Custodia prematuramente scomparso: era un uomo dotato di grande sensibilità e spiritualità che da musulmano amava molto Gesù, mostrando l’evidenza che ci può essere sintonia, collaborazione e amicizia fraterna tra cristiani e musulmani. Sul versante ebraico voglio ricordare un nostro collaboratore per la comunicazione, Amir, con il quale c’è stato un cammino non solo di collaborazione ma di amicizia fraterna e, in alcuni momenti difficili, di incoraggiamento a non perdere la speranza di fronte all’esperienza del male.
E i suoi rapporti, sempre a livello personale, con i rappresentanti delle altre confessioni cristiane?
Direi molto buoni, anche se sicuramente la relazione più significativa è stata con il patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, Theophilos III, che mi ha insegnato molto da tanti punti di vista e che tante volte mi ha incoraggiato e facilitato anche nel mio servizio di Custode. È un vescovo che crede molto nel dialogo e — per usare una sua espressione — sa che tutti noi dobbiamo lavorare perché arrivi il giorno in cui potremo alzare insieme il calice nella celebrazione eucaristica nel luogo più santo della cristianità, cioè al Santo Sepolcro.
Il suo mandato è coinciso in gran parte con il pontificato di Papa Francesco, il quale le ha fatto dono di una bellissima prefazione al libro che racconta la sua esperienza di custode di Terra Santa. Che ricordo di Francesco si porta nel cuore?
Il ricordo più bello sono i giorni trascorsi con lui a Cipro nel dicembre del 2021. Ricordo la semplicità, l’umiltà e l’umanità con cui ha accolto la mia richiesta di registrare con lo smartphone un messaggio per i giovani di Terra Santa. E in quell’occasione ci ha offerto un messaggio di speranza, l’invito ad alzare la testa e a credere che in questa Terra santa noi non abbiamo solo un passato da ricordare ma anche un futuro da costruire.
Come esperienza umana e personale cosa porta con sé di questi nove anni?
Credo di essere diventato umanamente un po’ più paziente, imparando dai cristiani locali che per rimanere qui bisogna amare questa terra, essere resilienti e capire che appartenere a questa terra non è una maledizione ma una vocazione.
Cosa pensa di fare ora? Rimane in Terra Santa? Torna in Italia? O parte per una nuova missione?
Il mio desiderio è di rimanere in Terra Santa, senza incarichi di governo, a servizio dei frati, dei cristiani locali e dei pellegrini.