A colloquio con il teologo morale don Mauro Cozzoli

L’illiceità della guerra preventiva secondo
la Chiesa cattolica

Launch of military missiles (rocket artillery) at the firing field during military exercise
24 giugno 2025

di Guglielmo Gallone

«Colpire per primo per evitare un ipotetico attacco del nemico non è eticamente accettabile»: con queste parole don Mauro Cozzoli, professore emerito di teologia morale presso la Pontificia Università Lateranense e consultore della Congregazione della Dottrina della Fede, spiega in un’intervista ai media vaticani la posizione della Chiesa cattolica sulla guerra preventiva. Un concetto dalle radici antiche, introdotto da Emmerich de Vattel nel trattato Le droit des gens (1758) in cui il concetto di “guerra giusta” viene sostituito con quello di guerra “per difesa”, divenuto centrale in occasione dell’attacco di Stati Uniti e di altri alleati all’Iraq del 2003.

Oltre vent’anni dopo, la cronaca internazionale rende ancora più attuale il concetto di guerra preventiva. Perdipiù, lo fa nel pieno di un profondo mutamento antropologico, sociale e geopolitico capace di stravolgere idee e convinzioni con cui le ultime generazioni sono cresciute. Oggi quel mondo non esiste più. Gli attori sono cambiati, dall’epoca delle grandi democrazie si è passati all’epoca delle grandi potenze, dove l’ordine internazionale dei singoli ha il sopravvento sul diritto internazionale e dove, dunque, la forza sembra spesso prevalere sul dialogo.

Il “Catechismo della Chiesa Cattolica” prevede la legittima difesa. Come si esprime a proposito del concetto di guerra preventiva? Cioè, di fronte a minacce imminenti ma non ancora attuate, uno Stato ha, secondo la Chiesa, il diritto morale di colpire per primo?

La Chiesa cattolica non fa alcun riferimento esplicito alla questione della guerra preventiva. D’altronde, è da poco che questo concetto è emerso. Tuttavia, possiamo derivare un insegnamento da altri argomenti come quello della legittima difesa, su cui la Chiesa si è espressa in maniera chiara. La legittima difesa è un principio di ragione, che la tradizione morale della Chiesa ha sempre insegnato. Mi riferisco qui a due documenti autorevoli della Chiesa di oggi. Il primo è Gaudium et spes, la Costituzione del Concilio Vaticano II sul mondo contemporaneo. Cito testualmente: «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa… una cosa è servirsi delle armi per difendere i giusti diritti dei popoli, ed altra cosa voler imporre il proprio dominio su altre nazioni. La potenza delle armi non rende legittimo ogni suo uso militare o politico». Il secondo testo è il Catechismo della Chiesa Cattolica, che ha delineato precisamente le condizioni di legittimità della difesa bellica. Tra queste, non c’è alcuno spazio per l’intervento preventivo. La violenza dell’aggressore dev’essere in atto, non in previsione. Nessuno vieta la possibilità di organizzare la difesa, di dotarsi di moderni e aggiornati sistemi difensivi. Tuttavia, colpire per primo per evitare un ipotetico attacco del nemico non è eticamente accettabile.

Dunque, entro quali limiti il catechismo contempla il ricorso alle armi?

La legittima difesa, per essere lecita, deve rispondere a quattro condizioni ben precise delineate dal Catechismo della Chiesa Cattolica. La prima: «che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo». Qui troviamo subito una delegittimazione diretta della guerra preventiva: si parla di «danno causato», dunque ci dev’essere un attacco «durevole, grave e certo» in atto, non in previsione. Seconda condizione: «che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci». Tradotto: la difesa non può essere la prima ratio. Terza condizione: «che ci siano fondate condizioni di successo», altrimenti si rischia di procurare ulteriori danni alla popolazione e al Paese. Su questa scia, la quarta condizione: «che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare». Da qui si può dedurre l’illiceità della guerra preventiva.

Al centro dei più importanti conflitti in corso c'è l’arma nucleare: la Chiesa comprende le logiche storiche e giuridiche del secondo dopoguerra che hanno consentito ad alcuni Paesi di dotarsi questo strumento di distruzione di massa? E perché altri Paesi, sentendosi minacciati, non dovrebbero dotarsene?

Perché l’escalation a cui si darebbe corso sarebbe inarrestabile. E si tratterebbe di un’escalation assai preoccupante per due motivi. Il primo: la guerra non sarebbe più combattuta con le armi cosiddette convenzionali, bensì con armi sempre più potenti. Poi, perché stiamo vedendo come i contrasti bellici si stanno trasferendo dai campi di battaglia agli agglomerati umani. Questo già avveniva con le armi convenzionali, figuriamoci con quelle atomiche o chimiche, dove si rischia di generare eccidi di popolazioni. «Il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione», dice il Catechismo della Chiesa Cattolica.

Nel mondo complesso in cui ci troviamo oggi si fa sempre più fatica a dialogare e a rinunciare ai propri interessi in vista di un bene comune. Quali alternative alla guerra contempla il realismo cristiano?

La Chiesa non ha alternative strategiche da suggerire. Questo spetta alla politica. Tuttavia, la Chiesa ha alternative valoriali e morali, che sono alla base e a monte delle alternative strategiche. Ne voglio richiamare due, dei due ultimi Sommi Pontefici: l’alternativa della fraternità universale, Fratelli tutti, Papa Francesco, e la «pace disarmata e disarmante», Papa Leone. Fratelli tutti non è uno slogan, è una coscienza morale alta da coltivare sempre, ancor più oggi nel mondo globalizzato. Ma quella globalità non è soltanto un dato sociologico, mediatico o economico. Deve diventare un compito da assumere. Ecco cosa significa essere “fratelli tutti”: generare in ognuno di noi una coscienza che revoca la logica del nemico, crea relazioni e incontri, favorendo il dialogo per risolvere i contrasti. Questa è l’alternativa, che però per essere realizzata ha bisogno a monte di contenuti valoriali ed etici capaci di annientare la logica dell’altro visto come nemico. Qui entra in gioco il dialogo, che è la via per la costruzione di una pace «disarmata e disarmante», come ci ha detto Papa Leone: una pace che in realtà investe in armamenti e fondata sugli equilibri degli armamenti, è una pace mascherata. Che non garantisce nulla.

Da sant’Agostino fino a san Tommaso, i capisaldi della teologia morale hanno dedicato la loro attenzione a questi argomenti. Lo stesso ha fatto la Chiesa con il Catechismo del 1992 ma anche con varie encicliche, tra cui spicca la “Pacem in terris”di Giovanni XXIII: qual è, secondo lei, il contributo più importante e perché?

Sono tutti importanti, ma io voglio evidenziarne un altro, ossia Gaudium et spes: una Chiesa, come leggiamo nelle parole iniziali del documento, «partecipe delle gioie e delle speranze, delle tristezze e delle angosce degli uomini d’oggi». Una Chiesa partecipe: ecco il principio d’incarnazione. E che, prosegue Gaudium et spes, «considerando l’orrore e l’atrocità della guerra enormemente accresciuti dal progresso delle armi scientifiche», esorta a «considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova, mens omnino nova»: con una mens radicalmente nuova. Questo significa che una cultura e una civiltà della pace, prima ancora che esplicitarsi in strategie di pace appaltate ai politici, deve maturare dentro le coscienze, deve diventare una cultura, una mens, una mentalità. È una maturazione fatta di princìpi e di valori come la dignità umana, la fraternità universale, il diritto e la giustizia che, se evangelizzati, annunciati e coltivati, suscitano pensieri e propositi di pace.