L’«Ora et labora» delle monache benedettine camaldolesi in Tanzania

Concretezza di un carisma

 Concretezza  di un carisma  QUO-144
24 giugno 2025

di Enrico Casale

Silenziose, instancabili e fedeli alla regola Ora et labora, le monache benedettine camaldolesi hanno costruito in Tanzania una profonda testimonianza di preghiera e lavoro, lasciando un’impronta tangibile sul tessuto umano e sociale del paese africano. La loro presenza risale al 1969 quando, su richiesta di un vescovo locale, nacque a Mafinga, nella regione di Iringa, il monastero di Santa Maria Madre della Chiesa, con una vocazione precisa: sostenere spiritualmente il seminario diocesano attraverso la preghiera contemplativa. Le prime tre suore, partite dal monastero romano di San Antonio abate, furono inizialmente accolte dalle suore missionarie della Consolata per apprendere lingua e cultura locali. Da lì prese il via un’esperienza monastica che ha trasformato non solo la vita religiosa in Tanzania ma anche interi territori.

Le sorelle iniziarono coltivando la terra, allevando capre e mucche, e insegnando ai seminaristi e agli abitanti del villaggio tecniche agricole basilari per l’autonomia alimentare. Intorno al monastero si sviluppò progressivamente una comunità stabile, poi un piccolo centro urbano, fino a diventare oggi una vera e propria cittadina. «Abbiamo insegnato a coltivare ortaggi, a fare il formaggio, a cuocere il pane», racconta madre Michela Porcellato, abbadessa del monastero di San Antonio e presidentessa della Congregazione femminile camaldolese: «Vedendo che il nostro monastero era abbellito con aiuole di fiori, alcune donne tanzaniane hanno iniziato a piantare fiori davanti alle case. È stata un’educazione alla bellezza e all’ordine». La foresteria del monastero di Mafinga, fin dall’inizio aperta all’ospitalità, ha accolto settimane formative per missionari, convegni di ogni tipo, corsi di esercizi spirituali e di ritiro per gruppi o singoli. Negli anni Duemila sono nati anche il monastero di Santa Katarina di Alessandria a Karatu, nel nord del paese, e il monastero della Pace, San Maglorio, a Dar es Salaam, la capitale economica. Il primo, vicino al parco del Ngorongoro, unisce attività agricole (coltivazione di grano, allevamento di maiali e galline) a una foresteria per ritiri spirituali frequentata da sacerdoti, famiglie e turisti. Il secondo, invece, sorge in una zona a maggioranza musulmana. Qui le monache hanno costruito un piccolo collegio femminile e accompagnano adolescenti nello studio e nella crescita, accogliendo richieste di ritiri spirituali anche da parte di famiglie locali.

In ciascuna comunità la vita quotidiana si struttura attorno a ritmi monastici precisi: sveglia all’alba, preghiera, Lectio divina, lavoro nei campi o nei laboratori, studio e momenti di silenzio. «Il lavoro manuale non è mai fine a sé stesso. È parte della nostra spiritualità, radicata nella terra come i popoli che ci ospitano. È parte della nostra storia che affonda le radici nell’esperienza di quei padri benedettini che con il loro lavoro contribuirono a costruire l’Europa come la conosciamo oggi», spiega madre Michela.

La loro clausura è permeabile alla vita del popolo, in un costante scambio tra contemplazione e servizio. La popolazione locale ha sempre visto nelle suore un punto di riferimento. «Molti vengono per chiedere ascolto, consiglio, preghiera. Anche i musulmani ci rispettano profondamente», afferma Porcellato: «A Dar es Salaam alcuni ci hanno persino chiesto di aprire una scuola per i loro figli». Il rispetto nasce dalla concretezza: in molte situazioni le monache hanno contribuito a portare acqua, insegnare mestieri e offrire lavoro. Anche per questo, nel tempo, sono entrate in monastero giovani provenienti da diverse tribù, comprese alcune ragazze masai, tradizionalmente restie alla vita comunitaria.

Il legame tra i monasteri e la Chiesa locale è profondo. «Siamo nate accanto al seminario e con il seminario siamo cresciute», dice la monaca camaldolese. Il rapporto con i vescovi è stato improntato al rispetto dell’autonomia del carisma monastico. Oggi due dei tre monasteri sono sui iuris, cioè autonomi, e fanno parte della congregazione camaldolese femminile con cinque case tra Italia, Tanzania e Polonia. L’esperienza delle benedettine-camaldolesi si inserisce in un solco antico. La prima evangelizzazione della Tanzania, infatti, fu portata avanti da monaci e monache benedettini tedeschi di Santa Ottilia. «I loro monasteri formarono le élites del paese», ricorda madre Michela: «Anche Julius Nyerere, padre della Tanzania moderna, fu educato in quell’ambiente. Da lui abbiamo ereditato l’idea che la terra è ricchezza e dignità».

La comunità di Mafinga, in particolare, è diventata un esempio vivente di questo legame tra spiritualità e sviluppo. La chiesa del monastero, costruita su progetto di Pier Luigi Nervi (lo stesso architetto dell’Aula Paolo VI in Vaticano), riflette l’identità camaldolese di solitudine e comunione. Le celle esagonali del monastero riprendono la forma delle arnie, simbolo di laboriosità e coesione. Il chiostro centrale, ricco di piante e fiori, rappresenta l’incontro tra preghiera e natura.

In un’Africa spesso ferita da sfruttamento e instabilità, l’esperienza delle monache camaldolesi è una testimonianza silenziosa, ma potente, di come la fede, quando è radicata nella terra e nella gente, possa generare vita. «Abbiamo camminato con loro, non davanti né dietro», conclude madre Michela: «La nostra è una storia comune: di lavoro, preghiera e speranza condivisa».