“El padre Roberto” viaggio in Perú sulle orme di Prevost

Quel giovane agostiniano
tra le “carreteras” di Lima

 Quel giovane agostiniano tra le  “carreteras” di Lima  QUO-143
23 giugno 2025

di Salvatore Cernuzio

Nel frastuono continuo di clacson e motori per le carreteras di Lima e nel generale grigiore del cielo, quello che gli abitanti definiscono «panza de burro» in riferimento al grigio biancastro del ventre di un asino, il convento di Sant’Agostino nel centro storico somiglia a un’oasi di colori, silenzio, raccoglimento. Un’antica struttura dall’architettura rococò, a pochi passi dalla Plaza de Armas abbellita da affreschi ed effigi sacre, tra cui la Nuestra Señora de Gracia, patrona del Perú che si venera l’8 maggio. La data, cioè, di elezione di Robert Francis Prevost.

L’allora missionario agostiniano si è recato rare volte in questa capitale che da subito avvolge e stravolge i cinque sensi, tra l’umidità che si appiccica ai vestiti, l’odore che varia dalla gomma bruciata al platano arrostito, il brusio di mototaxi (tantissimi) e combi (una sorta di bus con una decina di posti a sedere) i cui autisti sembrano fare a gara tra loro più che guidare. Dai suoi territori al nord — villaggi, cittadine, barrios — l’agustino di Chicago si è spostato nella capitale giusto per le assemblee generali del suo Ordine religioso. I confratelli però se lo ricordano bene, sin da quando, poco più che trentenne, a metà degli anni ’80 del secolo scorso, ha iniziato la missione a Chulucanas e poi a Trujillo, sua residenza per 11 anni, e infine a Chiclayo come vescovo.

«Ehhh, il nostro Roberto!», sospira padre Gioberty Calle, incrociando le braccia sotto la tonaca nera con la cintura di pelle. «Lo ricordo molto vicino a noi all’Eucaristia, nelle preghiere, nel preparare la pizza perché gli piaceva cucinare... Lo ricordo fraterno ma al tempo stesso fermo quando era necessario che lo fosse».

Parla con voce baritonale, il «padre», passeggiando per il cortile del convento, decorato con maioliche ispano-moresche, mentre il verso dei pappagallini si intreccia al rumore esterno. L’atmosfera rimane tuttavia ovattata, sospesa nel tempo. Non era così qui a San Agustín la sera dell’8 maggio, quando il cardinale protodiacono ha annunciato l’Habemus Papam. Campane, urla di felicità, applausi sono risuonati in tutto il convento. Padre Gioberty stava festeggiando il compleanno di un amico sacerdote di un’altra comunità. Era ora di pranzo ed è corso subito nella abitazione che condivide con altri tre fratelli per mettersi davanti alla televisione e assistere alla fumata bianca. «Ci siamo seduti e abbiamo acceso velocemente la TV. Eravamo in attesa. La domanda era: chissà se è nostro fratello Roberto?».

Ed era «padre Roberto» quello che si è affacciato dalla Loggia delle Benedizioni, salutando il suo Perú e proclamandosi «figlio di sant’Agostino». Un passaggio che padre Calle ricorda poggiandosi una mano sul capo, in segno di commozione. «È stata davvero una sorpresa. Guardavo come se non fosse vero…. Lui è un uomo di fede, è un agostiniano. Lo ringrazio perché lo ha detto liberamente».

Il religioso approfitta dei media vaticani per mandare un messaggio al suo «vecchio amico»: «Sei un agostiniano. Sai bene, Roberto, che questo ti coinvolge e ti impegna. Ti impegna nella tua vocazione, nella tua fede, nella tua sequela di Dio. Non avere paura, ti accompagniamo nella preghiera. Qui hai i tuoi fratelli e il Perú ti vuole bene. Conta su di noi e torna qui, ti aspettiamo».

Lo dicono tutti «torna in Perú» a questo Papa che, nonostante le radici statunitensi, viene considerato «peruano» a tutti gli effetti. D’altronde è un Paese, questo, che, nonostante le sue contraddizioni e i suoi limiti, apre una fessura dentro l’anima e lì si sedimenta. Ne sa qualcosa suor Margaret Walsh, missionaria marista, australiana ma ormai naturalizzata peruviana. Bassa statura, occhi azzurri vivaci, un irresistibile spagnolo con le “R” e le “O” dal marcato accento anglosassone, anche lei conserva ricordi personali di padre Prevost, soprattutto degli iniziali tempi della sua missione. «Quando è arrivato era così giovane… ma da subito è stato molto aperto, molto attento e con una grande capacità di parlare con le persone, sensibile alle differenze, senza mai scadere nella critica di una cultura così diversa».

Suor Margaret, in Perú da circa trent’anni dopo vari giri per il mondo (inclusa l’Italia), condivide le sue memorie dalla cappellina della casa a due piani, nella zona di Callao, periferia di Lima, dove lei e le consorelle vivono, cantano e pregano ogni giorno. Le altre missionarie preparano caffè e una torta alla carota, lei sistema un vasetto di fiori accanto a una foto di Leone XIV. Ridacchia nel ricordare la sera dell’8 maggio: «¿Quién será? ¿Quién será? Ce lo domandavamo tutti qui a Callao. Forse padre Robert…». Sorride ancora, la suora, se pensa che l’uomo oggi vestito di bianco è lo stesso che, anni fa, ha visto cavalcare una mula. «Era pure pericoloso, sa? Perché la mula tende a camminare vicino le sponde». Nella stagione delle piogge tuttavia era l’unica alternativa allo spostarsi a piedi verso zone alte, lontane e fredde, e Prevost «era una persona con il desiderio di raggiungere gli altri». Di lui suor Margaret rammenta pure il grande rispetto mostrato verso il ruolo delle donne nella Chiesa. Racconta i tanti dialoghi con la sua superiora e anche la stima mostrata nei confronti delle altre religiose con le quali si intratteneva in «charlas» durante pranzi e cene. Ad una “donna” suor Walsh affida il pontificato di Leone XIV, la Madonna madre del Buon Consiglio: «Spero che continui a stare alla sua presenza. Prego perché la Madre lo accompagni nel suo cammino, soprattutto nei momenti difficili».