La riflessione dei due attivisti, uno palestinese e uno israeliano, intervenuti all’Arena di Pace 2024 a Verona

Fare o non fare la guerra
Abbiamo sempre una scelta

 Fare o non fare la guerra. Abbiamo sempre una scelta  QUO-141
20 giugno 2025

di Aziz Abu Sarah
e Maoz Inon

Siamo due operatori di pace, uno palestinese e uno israeliano, che hanno sepolto dei familiari a causa della guerra e della violenza. Ne conosciamo i costi. Ne conosciamo il peso insostenibile. Conosciamo il silenzio del lutto, il dolore dell’assenza, e la devastazione che la violenza lascia dietro di sé. Per questo oggi alziamo le nostre voci: per implorare la pace e dire, in modo inequivocabile, che queste guerre devono finire.

La guerra che si sta inasprendo tra Iran e Israele, unita all’altissimo costo di vite e distruzione a Gaza, non minaccia solo la gente della nostra regione, bensì la coscienza morale del mondo intero. Tante persone innocenti sono travolte da una tempesta che non hanno scelto. Tuttavia, chi detiene il potere continua a scegliere la guerra.

La violenza non è un segno di forza. È il fallimento dell’immaginazione e della guida morale. La guerra è la decisione presa da quanti hanno esaurito la saggezza e la compassione. Rispecchia incompetenza e bancarotta morale. Ai leader che continuano a insistere sull’illusione che le bombe portino sicurezza o che il dominio generi pace non andrebbe affidato il compito di modellare il nostro futuro. E quindi diciamo: sappiamo che esiste un’alternativa. Noi ne siamo la prova vivente. Sappiamo che il nostro futuro è intrecciato e che non siamo destinati a essere nemici per sempre. Non solo un’altra via è possibile, ma è anche l’unica via morale.

Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo incontrato molti iraniani che si sono uniti al nostro lavoro per la pace. Sono persone comuni che, come noi, anelano a una fine della violenza. Negli ultimi giorni, con l’intensificarsi della guerra, abbiamo ricevuto ancora più messaggi da iraniani in Europa, negli Stati Uniti e nello stesso Iran. Chiedono che il ciclo di distruzione si fermi. Le loro voci sono chiare: non vogliono questa guerra.

Uno dei messaggi diceva:

«Vi scrivo dall’Iran, dal cuore di un popolo che conosce il dolore della guerra ma che continua a sognare la pace. Voglio ringraziarvi perché siete una voce di speranza, perché parlate quando sarebbe più facile tacere e perché credete nell’umanità anche quando sembra che il mondo stia andando in pezzi». Non siamo soli. Non siamo una minoranza. Queste voci di pace travalicano i confini e devono essere amplificate.

Sappiamo bene che la gente in Israele, Palestina e Iran non è definita dalla violenza. Le nostre comunità sono ricche di storia, resilienza e creatività. Ma oggi questa creatività è consumata dal conflitto. Immaginate che cosa potremmo costruire, quale bellezza potremmo offrire al mondo, se reindirizzassimo la nostra energia verso la pace.

Questo è il momento di rialzarsi. Tutti noi che crediamo nella giustizia, nell’uguaglianza, nella riconciliazione e nella dignità umana dobbiamo rialzarci dalle rovine lasciate dal fallimento politico. Dobbiamo rialzarci nello spirito delle nostre tradizioni di fede comuni – ebraica, cristiana, musulmana – che insegnano tutte la sacralità della vita e la necessità di pace.

Le Sacre Scritture sono chiare: «Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio». Siamo chiamati a essere questi figli. La nostra fede non è un’arma. È un ponte. Deve unirci, non dividerci.

A chi vive lontano da questa guerra, in Italia, Europa, America Latina o altrove, essa può apparire distante. Ma è un’illusione pericolosa. Come ci ha ricordato Martin Luther King Jr..: «L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia ovunque». La guerra non è mai contenuta. Le sue fiamme scavalcano i confini, trascinando il mondo più vicino alla catastrofe. È così che il mondo è finito dentro la guerra in passato.

Come ci ha detto Papa Leone XIV quando lo abbiamo incontrato due settimane fa: «Perché la via verso la pace coinvolge tutti e porta a incoraggiare le giuste relazioni tra tutti gli esseri viventi. Come ha sottolineato Giovanni Paolo II, la pace è un bene indivisibile. O è bene di tutti o non lo è di nessuno».

Stiamo già vedendo i primi segnali d’allarme. Dall’India e dal Pakistan alla Corea del Nord, da Gaza al Sudan e allo Yemen, dall’Ucraina e dalla Russia alla Repubblica Democratica del Congo. Ogni nuovo conflitto ci avvicina di più all’abisso. Alcuni ritengono che la guerra impedirà che accada il peggio. Ma la storia ci insegna il contrario. Ogni guerra rende più fragile la pace. Ogni guerra ci avvicina di più alla devastazione nucleare. Per questo crediamo nel totale disarmo nucleare. Non solo per l’Iran o per Israele, ma per tutte le nazioni. Per nessun Paese esiste una giustificazione morale per il possesso di armi capaci di distruggere la vita sulla Terra.

Ogni giorno la sofferenza diventa più profonda. Gaza viene distrutta. La Cisgiordania affronta una violenza senza precedenti. Le famiglie israeliane e iraniane vivono sotto la minaccia costante di missili e raid aerei. Questa guerra non isola; connette. Connette dolore con dolore, morte con morte. Noi, invece, crediamo di poter connettere speranza con speranza e umanità con umanità.

Siamo arrabbiati. Abbiamo paura. La nostra rabbia e il nostro dolore sono profondi e potenti come una forza nucleare e sarebbe facile usarli per distruggere. Abbiamo invece deciso di trasformarli in luce. Incanaliamo la nostra furia, la nostra paura e il nostro lutto in qualcosa di sacro: nella diplomazia, nella guarigione e nella pace.

Non siamo neutrali. Non siamo vittime distaccate. Siamo testimoni. Siamo sopravvissuti. Parliamo adesso perché sappiamo esattamente ciò che porta la guerra. E non si tratta mai di pace duratura. Ma sappiamo anche qualcos’altro: possiamo sempre agire. Possiamo cercare vendetta, oppure possiamo abbracciare la riconciliazione. Possiamo seguire la logica delle armi o la logica della diplomazia. Possiamo rimanere prigionieri della storia o possiamo modellare un nuovo futuro.

Oggi parliamo da persone di fede. Non perché la fede ci esenta dalla responsabilità, ma perché la esige. La vera fede non è passiva. Agisce. Costruisce. Protegge la vita.

Come ci ha detto lo scorso anno Papa Francesco nell’Arena di Pace a Verona: «La pace non sarà mai frutto della diffidenza, frutto dei muri, delle armi puntate gli uni contro gli altri. San Paolo dice: “Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato”». Non seminiamo morte, distruzione o paura! Seminiamo speranza!

Noi siamo fedeli alla visione di Papa Francesco e, anche nei tempi più bui, sceglieremo di seminare speranza e lavorare per la pace.