«El padre Roberto» documentario in Perú

di Salvatore Cernuzio
«El Papa peruano! El Papa peruano!». Ad oltre un mese dalla sua elezione, in Perú tutti parlano di Leone XIV. Tutti lo descrivono con affetto e nostalgia, tutti ricordano il bene ricevuto e la povertà, l’insicurezza, l’inquinamento ambientale e il tasso di criminalità cresciuto ad oltre il 70% negli ultimi cinque anni — per cui si evita pure di girare da soli di sera per strada «perché è pericoloso» — sono passati in secondo piano.
«El Papa es peruano!». Per gli abitanti della nazione latinoamericana il fatto che Robert Francis Prevost sia nato a Chicago è un dato trascurabile. «Il Papa è peruviano» lo dicono tutti, soprattutto al nord del Paese. I circa vent’anni di missione che colui che l’8 maggio 2025 è divenuto Leone XIV ha compiuto tra Chulucanas, Trujillo e, come amministratore apostolico, a Callao e poi come vescovo a Chiclayo, quelli no, non sono per nulla trascurabili. È un segno profondo, infatti, quello che ha lasciato il missionario agostiniano nel Perú che è terra di musica, gioia, accoglienza, bellezze naturali con Machu Picchu, la Sierra, la Selva e altri siti assaltati dall’overtourism, ma al contempo luogo di povertà endemica e desolazione.
Strade dissestate e impolverate, casupole di legno e mattoni appiccicati l’uno all’altro con l’adobe (una sorta di impasto di fango), alcune colorate da sembrare quasi delle piccole costruzioni-giocattolo, altre con un pezzo di staccionata a fungere da porta; file infinite di poveri che bussano alle mense allestite in parrocchie o all’interno di cortili di altrettante povere abitazioni. Poi distese di favelas — qui chiamate pueblo nuevo — dove il clima secco fa ardere le lamiere dei tetti e l’unica acqua che arriva è quella della Municipalidad che irriga 5-6 aiuole. E ancora, chiesette dai muri giallo pallido scrostato, ora decorati con la foto del Papa, conventi, case di suore e professi, edifici sacri dalla storia coloniale con Vergini ingioiellate, statue di Cristo con veri capelli donati dalle fanciulle, i retables, gli altari, con i tipici intarsi dell’artigianato barocco.
In questo scenario caratterizzato da profondi divari e contraddizioni, e al tempo stesso da tanta umanità, tanta gioia di vivere, condivisione e capacità di dedicarsi agli altri, l’agostiniano Prevost per quasi ventidue anni si è formato come missionario e ha formato i professi, ha vissuto, ha parlato, ha insegnato, scherzato, cantato. Ha celebrato messe e organizzato ritiri con gruppi di trabajadoras sexuales, donne vittime di tratta o costrette alla prostituzione, per ascoltare i loro problemi e per aiutarle a uscire dal giro e aprirsi attività e negozi. Ha camminato con i sandali lungo viali ricolmi di basura (spazzatura) e gli stivali sporchi del fango trasportato dalle inondazioni de El Niño, ha celebrato in saloni privi di pavimentazione, festeggiato cresime e comunioni o pranzato a casa di coppie di anziani e famiglie mono-reddito. Ha avviato mense per i poveri in casa di altri poveri o in parrocchie e canoniche, è andato per quartieri a richiamare la gente col megafono per invitarli a partecipare all’Eucarestia domenicale. Sempre serio, sempre sereno, sempre con quel sorriso quasi accennato, sempre «amable» e sempre «en escucho», in ascolto, di chiunque e di qualsiasi cosa.
Un parroco dedito alla preghiera e allo studio del Diritto canonico, come testimonia il libro sul comodino della sua stanza a Trujillo, lasciata intatta dai confratelli, ma al contempo un pastore pronto a intervenire nel pieno della pandemia nel distretto miserabile di Pachacutéc, alla periferia di Callao, e inviare in parrocchia quattromila polli e maiali per sfamare la gente senza cibo né lavoro; pronto a preparare la pizza con gli altri agostiniani e soffiare le candeline su una torta di compleanno intonando la Marinera. Un pastore pronto ad andare, guidando da solo la macchina, quartiere per quartiere per inaugurare statue della Virgén e incontrare e pranzare coi giovani. Pronto a gettarsi col giubbotto anti-pioggia e le bodas nelle strade devastate dalle alluvioni e aiutare le famiglie a cui l’acqua di un metro e novanta aveva portato via tutto.
«El padre». Sono pochissimi coloro che tra religiosi, sacerdoti, fedeli, famiglie, giovani, poveri — tantissimi poveri — riescono a chiamarlo Papa Leone XIV. Per tutti è ancora «el padre», «el padre Roberto». Al massimo, dicono, «el monseñor».
I media vaticani hanno ricostruito i passi degli anni di Prevost in Perú attraverso un viaggio che ha toccato Lima, Callao, Trujillo, Chiclayo, Chulucanas, Piura. Voci, immagini, luoghi, testimonianze, video e fotografie, alcune completamente inedite: tutto sarà visibile nel documentario realizzato dal Dicastero per la Comunicazione che sarà distribuito a livello internazionale a partire da oggi pomeriggio, 20 giugno, alle ore 17, sui canali ufficiali YouTube di Vatican News, nelle lingue spagnola (originale), italiana e inglese. Un’ora prima, alle 16, il documentario viene proiettato nella Filmoteca vaticana. Il titolo? «León de Perú». Un Papa Leone, di nome e di animo; «de Perú», del Perú. Perché «el Papa es peruano». Come non smette di ripetere la sua gente.